di Madeleine Rossi
C’è nello splendido film “Il terzo uomo” – che tratta dei traffici di medicinali nella Vienna dell’immediato dopoguerra – questa barzelletta: “In Italia, sotto i Borgia, per trent’anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno prodotto? L’orologio a cucù.”
… senza dimenticare Heidi, la cioccolata ed i lingotti d’oro.
I due lati della medaglia svizzera
Ma a proposito, che cos’è la Svizzera? Una lunga storia iniziata nel 1291, 26 cantoni, 4 lingue nazionali senza contare l’inglese, un garantismo a favore del cittadino e una certa cultura dell’essere un vero e proprio stato di diritto. Un paese che, secondo l’indicatore di democrazia del giornale “The Economist”, fa parte delle democrazie complete – ossia “veraci”.
Lato oscuro: un profilo di crocevia per il reinvestimento o il transito di fondi illegali – ma anche, e questo purtroppo non cambia, per il traffico di beni culturali ed archeologici. Insomma, tutto ciò che assomiglia a una “moneta”. La Svizzera cerca di non vantare troppo i suoi porti franchi, che non sono altro che un “limbo fiscale” – perché liberi da vincoli doganali – e che dovrebbero essere oggetto di un libro più che di un articolo, pur approfondito.
Orbene, scherzi ed orologi a cucù a parte, la Svizzera ospita, se posso dire, un altro meccanismo ad orologeria: la mafia o, come dice un inquirente del nostro Ufficio centrale di polizia, la Fedpol: un cancro generalizzato. Emergono delle fasce ad elevata mafiosità (accontentiamoci per ora della mafie italiane), ossia una parte della Svizzera tedesca (Zurigo, Turgovia), il Ticino per motivi storici e ovvie vicinanze linguistiche e culturali, ma anche il Vallese, che confine al Val d’Aosta e il Piemonte. E queste tre zone sono solo quelle “più importanti”…
La Svizzera non è un’isola felice, immune del fenomeno mafioso, e se ne è resa conto – perlomeno gli addetti ai lavori se ne sono accorti – all’inizio degli anni ’90, epoca in cui il giudice Falcone si recava spesso in Ticino ed a Zurigo. Ci lavorava assieme alla grande Carla Del Ponte, futuro procuratore federale di Lugano, ed il suo vice Claudio Lehmann, ed erano impegnati in una rogatoria internazionale sul riciclaggio del denaro sporco in provenienza della Sicilia… e che finiva (già) nelle banche svizzere. Nel 2011, lavorando sul fallito attentato dell’Addaura, ho avuto modo di parlare con la Del Ponte ed un suo collaboratore di allora, Clemente Gioia, commissario della polizia svizzera. Tutti e due, emozionati da questi vecchi ricordi, sorridevano evocando quel periodo, ma anche un Falcone che apprezzava trovarsi a Lugano per godersi cose semplici una volta finita la giornata di lavoro, come andare al cinema…
È lì che la giustizia svizzera ha iniziato a seguire i soldi… per poi trovare la mafia.
Un arsenale legislativo? Piuttosto un coltello svizzero monolama…
E oggi, 20 anni dopo, che cosa si dice della mafia, o meglio, delle mafie in Svizzera? Non tante cose, a dire la verità. Non è che il Ministero pubblico della Confederazione sia cieco o manchi di volontà. Anzi. Il procuratore federale, Michael Lauber, sostiene che il semplice sospetto di appartenenza a un’organizzazione criminale non può essere perseguitato. In altri termini: nonostante l’articolo 260ter (ter!) del Codice penale svizzero, nella Confederazione, essere mafioso non è reato. Lo ricordava il 5 gennaio 2015 un articolo di Swissinfo: “I criteri per dimostrare che qualcuno appartiene a un’organizzazione criminale sono infatti troppo elevati. A metà dicembre dello scorso anno, l’MPC si era visto costretto ad archiviare un procedimento contro cinque persone per presunta appartenenza alla ‘Ndrangheta. L’inchiesta era durata oltre 13 anni.”
Il procuratore federale ha proposto dunque al Parlamento di modificare la legislazione, dopo aver già presentato almeno un progetto di modifica dell’articolo di legge in questione. La quale permette al massimo di “fare solletico ai membri della mafia”, come diceva l’ex procuratore ticinese Paolo Bernasconi.
A richiedere un’importante modifica c’è anche il parlamentare – guarda caso – ticinese Giovanni Merlini, che a settembre 2014 aveva depositato un’interpellanza circa l’efficacia o meno dell’articolo 260ter, a secondo del quale “Chiunque partecipa a un’organizzazione che tiene segreti la struttura e i suoi componenti e che ha lo scopo di commettere atti di violenza criminali o di arricchirsi con mezzi criminali, chiunque sostiene una tale organizzazione nella sua attività criminale, è punito con una pena detentiva sino a cinque anni o con una pena pecuniaria.”
Il problema è duplice: o non è possibile dimostrare l’esistenza dell’organizzazione o non è possibile dimostrare che è segreta… E quale fu la risposta, a novembre 2014, del Consiglio Federale all’interpellanza di Merlini? In sostanza, tra vari fronzoli tesi a giustificare il rifiuto ostinato di prendere il toro per le corna, l’organo esecutivo “ritiene che il diritto penale materiale vigente sia sufficiente e adeguato”. Come si dice in francese, “circulez, y a rien à voir”: circolate, non c’è niente da vedere.
Passiamo dall’altro lato della trincea per parlare dell’Ufficio centrale di polizia (Fedpol), diretto dal Ministero pubblico e che ha competenza per la criminalità organizzata, il finanziamento del terrorismo e i reati economici complessi tra altre mansioni specifiche. Agisce in base a segnalazioni e si può dire che il suo ruolo è “passivo ma reattivo”: non interviene direttamente ma compie un ottimo lavoro (come lo dimostrano i report disponibili online sul sito dell’amministrazione federale)… che purtroppo non è messo abbastanza in evidenza. Cultura della discrezione efficace… probabilmente un pregio tipicamente svizzero… e vicini alla realtà del terreno, ottimi segugi che non prendono guanti per dire che la popolazione svizzera non percepisce la pericolosità delle infiltrazioni mafiose.
E ci sarà un motivo, oltre al fatto che la Svizzera non è terra di mafia, ma “solo” terra di accoglienza di fondi di origine criminale: non se ne parla, o poco, anzi, “non si sa”.
Questo si vede nei media svizzeri: eccezione fatta del sito Swissinfo, che regolarmente pubblica articoli di approfondimento sul tema “mafia+Svizzera”, e della Radio Televisione della Svizzera italiana che qualche anno fa ha diffuso trasmissioni molto interessanti sulla presenza mafiosa sul territorio, non si parla di mafia. O così poco…
L’Agenzia telegrafica svizzera (ATS), per voce di due capiredattori intervistati brevemente nei giorni scorsi, ha un discorso piuttosto incoraggiante: non solo esiste la consapevolezza del fenomeno mafioso, ma se l’agenzia stampa ne avesse i mezzi – oltre al fatto che un’agenzia stampa non ha vocazione a sviluppare indagini – approfondirebbe l’argomento quando gli capita di trovare notizie provenienti, ad esempio, dall’Italia e relative a cose che devono diventare nostre… Per il resto, trattare o meno l’argomento ed “educare” i Svizzeri circa il fenomeno mafioso rientra nel quadro della scelta editoriale. Non è bello dirlo ma più volte, proponendo articoli di approfondimento “sulla mafia”, mi sono sentito dire: “Mah, lasciamo questa roba alla Repubblica e agli Italiani…”. Con tutti i sottointesi che si possono capire.
Conclusione? Se la Svizzera non vuole essere presa alla sprovvista da un fenomeno che va crescendo sul suo territorio e che non può più ignorare, deve – magari – riformare il suo Codice penale e osare parlare delle mafie. Perché non è possibile avere i soldi della mafia – e ci sono – senza prendersi anche la mafia. Perché se arrivano i soldi della mafia, non solo è perché arriva anche la mafia… ma perché c’è già la mafia. Discorsi ovvi in Italia… ma altrove? Me lo domando. E vanno dunque ribaditi all’infinito.
Tratto da: laspia.it