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via-damelio-web1Archiviata l’inchiesta sui funzionari di polizia

di Enza Galluccio - 7 agosto 2015
Dopo la strage di via D’Amelio, l’incaricato ed esperto informatico Gioacchino Genchi compie alcune ricerche su dei tabulati telefonici da cui risulta che dalla zona del Castello Utveggio, situato sul monte Pellegrino che sovrasta la via, il 19 luglio 1992 vengono effettuate diverse chiamate indirizzate proprio sul luogo dell’attentato. Lassù c’era un centro operativo del Sisde, che subito dopo viene smantellato. Questa sembra essere un primo indizio sul coinvolgimento di pezzi dello Stato nella strage che vede morire il giudice Paolo Borsellino  con gli agenti  Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.

Nei quattro anni che intercorrono tra il 1988 ed il 1992, Gioacchino Genchi aveva collaborato con gli uffici investigativi e con il Capo della Squadra Mobile dell’epoca Arnaldo La Barbera nello svolgimento  di indagini particolari.
La Barbera però lavorava anche per il Sisde con il nome in codice “Rutilius”, ma a quel tempo Genchi non poteva saperlo.
Nel settembre del ’92 veniva arrestato il pregiudicato Salvatore Candura con l’accusa di rapina e violenza. In quell’occasione  era stato anche accusato del furto di una Fiat 126 insieme ad altri due complici. Sulle dichiarazioni di Candura veniva poi coinvolto Vincenzo Scarantino in qualità di mandante di quel furto. Erano tutti delinquenti comuni del quartiere della Guadagna vicini a Cosa Nostra,ma decisamente improbabili esecutori  o mandanti di un attentato pari a quello di via D’Amelio … E invece per l’allora procuratore di Caltanissetta Giovanni Tinebra i colpevoli della strage erano proprio loro.
 Iniziava così un’incredibile sequenza di confessioni e ritrattazioni, ma era tutta una farsa che, per dichiarazione degli stessi accusati/accusatori, sarebbe stata indotta con metodi persuasivi pesanti, molto vicini alla tortura sia fisica che psicologica. Tuttavia,  per un po’ di tempo il “caso Borsellino” sembrava essere chiuso e nel dicembre del ’92 Arnaldo La Barbera  veniva trasferito a Roma,mentre Genchi … rimosso dall’incarico.
Nel settembre del 2009, quest’ultimo rilasciava ai cronisti Rizza e Lo Bianco de Il Fatto Quotidiano una inquietante dichiarazione: "Stavamo per scoprire la verità sulle stragi e forse anche sui mandanti esterni. Ci dissero che tutto doveva passare nelle mani del Ros, che stava trattando con collaboratori importantissimi per arrivare all'arresto di Riina. E' la prova che la trattativa era nota a tutti".
Effettivamente Riina era stato arrestato  il 15 gennaio del 1993 e La Barbera ricollocato al suo originario posto per decisione del Ministero dell’Interno, allora presieduto da Nicola Mancino.
Sotto la guida del questore Arnaldo La Barbera, all’epoca, lavoravano anche Mario Bo, Salvatore La Barbera e Vincenzo Ricciardi, tutti parte di un pool  denominato “Gruppo Falcone-Borsellino”.
A sorpresa era stato richiamato anche Genchi e l’intero coordinamento del pool veniva affidato ancora a Tinebra.
La collaborazione tra Genchi e La Barbera però era durata pochissimo a causa di un pesante litigio tra i due.
Ancora una volta le parole di Genchi suonavano come un campanello d’allarme: "Decisero di arrestare Pietro Scotto, l'uomo che avevo individuato come possibile telefonista per via d'Amelio. Mi parve una cosa assurda...Era intercettato, avrebbe forse potuto portarci ben più avanti...L'arresto di Scotto per le confessioni di due personaggi improbabili come Candura e Scarantino rischiava di far naufragare l'indagine...La Barbera scoppiò a piangere. Mi disse che lui sarebbe diventato questore e che per me era prevista una promozione per meriti straordinari. Non volevo e non potevo credere a quello che mi stava dicendo....Me ne andai sbattendo la porta. Abbandonai per sempre il gruppo Falcone-Borsellino e le indagini sulle stragi".
Con Scotto era stato arrestato anche Giuseppe Orofino, custode della Fiat 126, e Salvatore Profeta considerato l’intermediario tra i boss e Scarantino di cui era cognato.
In seguito, anche il compagno di cella di Scarantino, Francesco Andriotta, aveva confessato  di averlo sentito parlare di quel furto e di Profeta  e Orofino.
La Procura nissena sembrava essere in una botte di ferro … Invece, prima sulla base di alcune dichiarazioni dei famigliari degli accusati, i quali affermavano  che Scarantino era stato picchiato costantemente per indurlo a prendersi la responsabilità della strage e a coinvolgere anche altri come corresponsabili, poi con le parole del pentito Gaspare Spatuzza nel 2008 tutto si ribalta.
Spatuzza smentiva definitivamente quanto dichiarato da Scarantino e, autoaccusandosi, raccontava la verità sugli esecutori materiali della strage di via D’Amelio …  
Era tutta una montatura, ed in seguito erano state riaperte le indagini su quei fatti e, di conseguenza, su  chi aveva sostenuto con ogni mezzo quello che possiamo definire soltanto un terribile  e drammatico depistaggio.
È di questi giorni la notizia che il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, sulla base di una richiesta di archiviazione delle indagini a carico dei funzionari della polizia coinvolti nei fatti, avrebbe chiesto di far cadere le accuse contro gli uomini del gruppo guidato da La Barbera (nel frattempo deceduto) per mancanza di prove sulle “pressioni illecite” esercitate sui falsi pentiti allo scopo di indurli a confessare ciò che non avevano mai commesso.
Quello che stupisce è la mancanza di risposte sul depistaggio da parte dei pm nisseni.
Oggi, anche su questo pezzo di storia, chi ha sostenuto le accuse e chi ci ha lavorato scavando nei particolari più scabrosi di questa vicenda scellerata, scrivendo libri e articoli per tutti questi anni, avrebbe semplicemente sognato …

Enza Galluccio – autrice di libri sulle MAFIE e sulle relazioni tra Stato e criminalità organizzata

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