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di-matteo-nino-c-paolo-bassani-cl-2015di Giulio Cavalli - 25 luglio 2015
La sua stanza è ingabbiata tra doppie porte e uomini di scorta sulla porta d`ingresso. Nino Di Matteo è un magistrato costretto a una cattività che ferisce quasi più della paura. L`ho incontrato a Palermo, nel suo ufficio, luogo che spaventa molti della Prima e della Seconda Repubblica.

Cominciamo toccando subito il nervo scoperto: a che punto è il processo sulla trattativa? Tolti alcuni siti di informazione sembra quasi che non esista nemmeno un processo in corso, come se fosse già ufficialmente un`inutile bolla di sapone, mentre alcuni collaboratori di giustizia stanno rilasciando dichiarazioni esplosive. Quindi?
Il dibattimento sulla trattativa va avanti con una cadenza piuttosto serrata ormai nel disinteresse generale. Dopo la testimonianza del Capo dello Stato, che ha segnato il momento anche di eccessiva concentrazione degli organi di stampa sul processo, altri passaggi giudiziari secondo noi molto importanti, sia dal punto di vista processuale che della ricostruzione storica, sono passati sotto silenzio. Comunque noi siamo a un buon punto, anche se sono ancora molti i testimoni da sentire, e speriamo di arrivare alla discussione finale nel giro di un anno. Sicuramente si continua con l`interesse degli imputati e probabilmente di qualcun altro: noi siamo stati oggetto di esposti e ripetute denunce rivolte anche al Csm, al ministero e perfino al Presidente della Repubblica. Ci contestano di continuare a indagare nonostante la pendenza del dibattimento. Noi invece riteniamo che ogni spunto vada approfondito e riteniamo che ciò che sta emergendo possa provare l`esistenza di un reato che non è il reato di “trattativa” (al di là del giudizio etico e morale sul disvalore di una trattativa) ma il reato preciso di “violenza e ricatto al governo”: noi pensiamo che i mafiosi abbiano compiuto quella violenza (e quel ricatto) attraverso le bombe, e i politici e gli appartenenti alle istituzioni sono imputati in concorso ai mafiosi per avere fatto da cinghia di trasmissione tra i mafiosi e il governo. Questa è l`essenza del cosiddetto processo sulla “trattativa”.

A proposito della questione di “opportunità”: in questo Paese sembra che il senso di “opportuno” sia andato a sbriciolarsi negli ultimi anni, tu vedi una decadenza regolare da Andreotti passando per Dell`Utri e ora per questo processo?
Io penso che la grande battaglia culturale, che può portare tra i tanti effetti anche un`eventuale vittoria sulle mafie, parta dalla riaffermazione del principio per cui accanto alla responsabilità penale deve essere fatta valere la responsabilità di tipo politico, di tipo etico e in alcuni casi di tipo disciplinare e professionale. L`errore in questo Paese è stato quello di considerare importante solo la responsabilità penale. Per decenni, rispetto all`emersione di fatti comprovanti i rapporti tra le mafie e il potere, la politica si è riparata sempre dietro l`attesa delle sentenze definitive della magistratura, come se un rapporto consapevole di un uomo politico con un mafioso non avesse nessun disvalore se non si fosse concretizzato un contributo concreto e come tale integrante di un`ipotesi di reato. Oggi la situazione, probabilmente, è addirittura peggiorata perché nemmeno le sentenze definitive della magistratura sono valse a fare scattare quei meccanismi di responsabilità politica. Come nella sentenza Dell`Utri che sancisce che in un periodo non breve, dal 1974 ad almeno il 1992, l`imprenditore milanese Silvio Berlusconi per il tramite di Dell`Utri ha stipulato un vero e proprio accordo protettivo con i capi delle famiglie mafiose palermitane più importanti: nel momento in cui questi facevano tutto quello che hanno fatto (delitti, stragi, omicidi eccellenti) al di là della responsabilità penale (per il momento contestata al solo Dell`Utri), in Italia non è stata fatta valere la responsabilità politica di chi aveva stretto quel patto e lo ha mantenuto per 18 anni. Io credo che questa sovrapposizione concettuale tra la responsabilità penale e altro tipo di responsabilità è la vera tragedia di questo Paese.

Forse noi operatori culturali e gli intellettuali siamo stati latitanti su questi temi? Non è che spesso manca un corpo culturale intermedio?
Purtroppo temo di sì. Non dovrebbe essere il magistrato a fare risaltare il frutto del proprio lavoro e le risultanze di una sentenza. Invece negli ultimi anni è stato necessario, per sviluppare una vera coscienza antimafia, che qualche magistrato si esponesse in prima persona per un dibattito che dovrebbe partire dagli organi di informazione e svilupparsi attraverso la partecipazione di tutti. Oggi è diventato rivoluzionario ricordare cose perfino scontate o che sono date per accertate. Oggi sembra rivoluzionario chi semplicemente ricorda o sottolinea dati di fatto acquisiti: questo è il segno dell`impoverimento generale e delle omissioni colpevoli di certa stampa.

Forse anche il movimento antimafia sembra avere più acquolina in bocca per la sacrestia della scorta di Nino Di Matteo perdendo così i contenuti?
Sì, in parte condivido la tua considerazione. Il rischio, anche di quelli che hanno sete di conoscere, è di concentrarsi su aspetti non sostanziali e magari contingenti e marginali rispetto ai contenuti che possono portare a un`analisi più approfondita del fenomeno e dei rapporti collusivi tra il potere e la mafia. Il rischio di sbagliare obiettivo nel movimento antimafia è molto alto. Però, in questo momento storico, io ci tengo a dire un`altra cosa: è forte il rischio di buttare il bambino insieme all`acqua sporca. Lo stiamo correndo inconsapevolmente ma temo che sia alimentato dall`intelligente opera di chi vuole zittire per sempre il movimento antimafia. Loro sanno che quando si discute di mafia (anche male e superficialmente) si costituisce comunque un ostacolo per chi con la mafia vorrebbe trattare e fare affari.

La tua bocciatura al Csm mi riporta a Falcone e Borsellino, commemorati ogni anno, e con una delegittimazione così simile alla tua. Tante similitudini. Non ne hai paura?
Ho il pudore di parlare di similitudini rispet- to a magistrati molto più autorevoli ed efficaci di me, che hanno combattuto la mafia. È certo, però, che quando leggevo, anche attraverso gli atti delle inchieste, la profonda amarezza, soprattutto di Giovanni Falcone, quando gli dicevano di essersi messo una bomba all`Addaura da solo, oppure l`amarezza di tutte le volte che sono stati bocciati i suoi progetti di avanzamento di carriera o di trasferimento, non potevo capire la rabbia e la delusione di quel giudice. Negli ultimi due anni, invece, ho provato un senso di profonda amarezza perché non avrei mai immaginato che delle vicende che hanno creato problemi e preoccupazioni a me, alla mia vita, alla mia famiglia (le minacce di Riina, il tritolo comprato per me) potessero creare un clima di diffidenza verso di me anche all`interno della magistratura. Ora so che si corre sempre il rischio di diventare (non volontariamente) un simbolo della lotta alla mafia e scatenare gelosie e rancori pericolosissimi, e che i mafiosi sanno cogliere benissimo i segnali di isolamento e di delegittimazione. Alle calunnie reagirò sempre in tutte le sedi. Rispetto le opinioni ma non accetto di essere il «ricattatore del Capo dello Stato» o colui «che si è montato da solo» le minacce di Riina.

Io ogni tanto penso ai miei figli: ma com`è che vincono sempre gli anaffettivi? Mio figlio mi chiede «ma se il bene vince, perché i buoni sono sempre preoccupati o a rischio?».
A volte ho la sensazione che per fare carriera in magistratura il requisito che paga di più sia quello di esporsi di meno. Oggi ho la sensazione che prevalga l`idea del bravo magistrato che non si espone nel dibattito pubblico, che rispetta le gerarchie, sempre pronto a schierarsi al fianco del proprio capo d`ufficio, del magistrato che valuti molto approfonditamente le conseguenze del proprio operato anche secondo un`opportunità politica che rappresenta invece la negazione della magistratura.

Eppure in questo Paese ci sono molti giovani pronti a scendere in piazza in difesa dei magistrati. Ma com`è che nessuno diventa mai classe dirigente?
Spero che sia solo una questione di tempo. Tenendo però bene a mente il rischio della mitizzazione del singolo personaggio, che sia un magistrato o un attore o regista: spero che questa splendida passione civile non riguardi le persone ma i temi, lo spirito. Altrimenti quando un “presunto mito” abbandona, si corre il rischio di considerare la battaglia finita. Penso ad Antonio Ingroia, ad esempio.

Mattarella, Renzi, Grasso e altri hanno telefonato subito a Lucia Borsellino per solidarizzare a seguito di una presunta inter cettazione. A te hanno mai chiamato per esprimerti vicinanza?
Mai ricevute telefonate di Presidenti della Repubblica o presidenti del Consiglio. Mai. Nemmeno dopo le minacce di Riina. Nemmeno quando il pentito Galatolo ha riferito il progetto di attentato nei miei confronti. Non chiedermi un commento. Ho dato una risposta sui fatti. Tengo per me le considerazioni.

* Dal settimanale “Left” in edicola oggi

Tratto da:
azione-civile.net

Foto © Paolo Bassani

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