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bb03-WEBdi Franco Fracassi - 30 giugno 2015
Al G8 di Genova Polizia e black bloc hanno lavorato in simbiosi. Ero inviato «addetto alle botte» e sono stato testimone diretto dell’incoffessabile legame.

«Se vuoi mangiare devi fare la fila. Qui è tutto chiuso. I ristoranti aperti sono pochi. Vanno tutti lì a mangiare. Ti siedi solo se sei fortunato».

Assolata e desolata. Così si presentava Genova nel luglio 2001. Non era desolata a causa del caldo e delle vacanze. Era desolata per paura. Di lì a pochi giorni si sarebbe svolto il G8, il vertice internazionale che racchiude gli otto Stati più potenti economicamente dell’Occidente. Si sarebbe discusso di molti temi, e di globalizzazione. Ma soprattutto la città sarebbe stata teatro delle proteste anti globalizzazione. Di questo avevano paura i genovesi. Da settimane i giornali e le televisioni annunciavano la violenza dei manifestanti. Si era arrivati a scrivere che i dimostranti avrebbero lanciato sacche di sangue infetto alle forze dell’ordine. Per questo i genovesi avevano paura e la città appariva desolata.

Allora lavoravo per l’agenzia di stampa Ap.Biscom (oggi TMNews). Facevo parte della nutrita squadra inviata a Genova per coprire l’evento. «Dovrai occuparti delle botte, degli scontri», mi dissero.

Ero contento della missione assegnatami. Come tutti i vertici internazionali, anche questo si annunciava come l’ennesima noiosa sequela di strette di mano, di party, conferenze stampa e frasi di rito. L’azione, il divertimento per un giornalista curioso, stavano altrove, per le strade. Né io né nessun altro dei cronisti giunti nel capoluogo ligure avrebbe mai immaginato che quei giorni si sarebbero trasformati in un’ordalia di violenza incontrollata, in terrore puro, in incubi che mi avrebbero perseguitato negli anni a venire.

Arrivai a Genova una settimana prima l’inizio del Vertice. Dovevo prendere confidenza con le strade di Genova e raccontare la trasformazione fisica della città in vista del G8. Nei momenti liberi andavo a seguire le conferenze del Genoa Social Forum, sempre molto interessanti e affollate di curiosi di ogni ceto, provenienza ed età.

I giorni passavano e il momento di inizio del vertice si stava avvicinando. Nel frattempo cercavo di capire dove ci sarebbero stati gli scontri, chi vi sarebbe stato coinvolto e di quale entità sarebbero stati. Cercavo di prepararmi al meglio al mio lavoro. Parlavo con poliziotti, finanzieri, manifestanti. Partecipavo a riunioni (a volte con risultati disastrosi), assistevo a comizi. Genova stava velocemente cambiando e io altrettanto rapidamente dovevo comprendere, prevenire, altrimenti non sarei riuscito a raccontare la realtà. Di informazioni ne stavo raccogliendo molte, ma non abbastanza. Mi mancava il quadro d’insieme. Mi mancavano alcuni particolari decisivi. Chi avrebbe dato il via agli scontri? Dove sarebbe accaduto? Come si stavano realmente preparando le forze dell’ordine? Le tute nere e le tute bianche si erano organizzate?

Forse la questione era concentrata in due domande: manifestanti (o parte di loro) si erano segretamente accordati con le forze dell’ordine? Esisteva qualche piano segreto progettato da alcunchi? Al momento erano domande senza risposta. In seguito avrei trovato le risposte e avrei scoperto che entrambe erano affermative.

«Se vuoi mangiare devi fare la fila. Qui è tutto chiuso. I ristoranti aperti sono pochi. Vanno tutti lì a mangiare. Ti siedi solo se sei fortunato». Erano giorni che mi sentivo ripetere dai miei colleghi la stessa cosa. Andavo a cenare sempre nello stesso ristorante a via XX settembre. Ci andavo perché era comodo. Ma soprattutto, ci andavo perché era frequentato da poliziotti e finanzieri. Ci andavo perché era un ottimo luogo per raccogliere informazioni.

Una sera un poliziotto mi mostrò una foto del Maschio Angioino di Napoli. «Ci sei mai stato? Sì, eh. Bello. Napoli è una città bellissima. Io vivo nella parte bassa del Vomero».

«Lei era presente agli scontri di marzo?».

«Certo che c’ero. La vuoi sapere una cosa? I no global sono delle bestie. Degli animali. Napoli è così bella. Un giorno arrivano gli animali e la mettono sotto sopra. Bestie! Sapessi quante botte sono volate quel giorno. Eh, ma noi gliene abbiamo date di santa ragione, sai. Bum! Bum! Bum! – il braccio destro che menava fendenti all’aria imitando le manganellate – Ne abbiamo stesi tanti quel giorno. Ne ho stesi tanti! Bestie sono! Non vedo l’ora che venga venerdì per farli a pezzi. La pensano tutti come me. Le vogliamo massacrare quelle merde. Non usciranno vive da Genova!».

«Sta parlando sul serio? Non le sembra di esagerare?».

«Tu c’eri a Napoli? No? E allora che ne sai. Che ne sai cos’è successo. Sono bestie. E come bestie verranno trattate. Sono quattro mesi che aspettiamo questo momento».

La sera successiva al ristorante incontrai lo stesso poliziotto. Mi riconobbe subito. Mi sorrise e mi mostrò la foto del Maschio Angioino. Non disse nulla. Non ce n’era bisogno.

Finito di cenare mi avvicinai al tavolo dove stava seduto. Mi presentò i suoi colleghi. Sembrava che non importasse a nessuno che ero un giornalista. Sapevano che avrei potuto scrivere quello che mi stavano raccontando, eppure non avevano remore nel chiacchierare.

«Ragazzi, questo vuole sapere dove ci saranno le botte e quante botte ci saranno! Che dite? Glielo diciamo?».

«Di botte ce ne saranno tante. Puoi star certo. Pensi che noi staremo fermi a proteggere la Zona Rossa mentre quelle bestie scorrazzeranno liberamente per Genova? Chi pensa questo è un imbecille oppure vive sulla Luna». E giù risate.

I due poliziotti, aggiunti al terzo napoletano del giorno prima erano stati chiari. Mi attendeva un super lavoro nelle due giornate di manifestazioni. Mancavano però sempre le informazioni decisive: chi, dove, quando e come. E così continuavo a frequentare sera dopo sera quel ristorante nella speranza di avere almeno una risposta alle mie domande.

Poliziotti davanti all’entrata di una caserma.

Poliziotti davanti all’entrata di una caserma. Alcuni di loro, al posto della divisa, indossano abiti da manifestanti. Sono tante le prove fotografiche, filmate e testimoniali che dimostrano come tra i black bloc e i manifestanti più facinorosi ci fossero molti agenti delle forze dell’ordine, sia italiani, sia stranieri.

Giovedì sera tra i tavoli c’era più calma del solito. Molti dei poliziotti e dei finanzieri che avevo visto e conosciuto nei giorni precedenti avevano disertato la cena. «Sono rimasti alla mensa del quartier generale – mi dissero – domani è il grande giorno».

Ero deluso. In una settimana non ero riuscito a scoprire nulla di significativo. Avevo anche partecipato il giorno prima a una riunione operativa dei Pink.

Si svolgeva in un tendone di Piazzale Kennedy, a due passi dal mare. Sotto la tenda c’erano un centinaio di persone. Insieme a me c’erano alcuni giornalisti. Ma prima che iniziasse la riunione, uno dei dirigenti disse: «Tutti i giornalisti fuori dalle palle! Questa è un’assemblea di dimostranti. Dobbiamo decidere cose importanti. Quindi, fuori!».

Uscirono tutti. Io rimasi. Ovviamente col mio badge infilato nel giubbotto da fotografo multitasca che portavo in quei giorni. Parlavano di strategie, di come avvicinarsi alla Zona Rossa. Io ascoltavo e riferivo via cellulare alla mia redazione. Non stavo la spia, stavo facendo il mio lavoro.

Alcuni di loro, però, non la pensavano allo stesso modo. «Ehi! Questo qui è uno sbirro! Parla al cellulare e racconta quello che diciamo», urla un tipo.

«Non sono una spia. Sono un giornalista». Feci vedere il badge.

«E allora fuori! I giornalisti non ce li vogliamo qui!».

I Pink erano l’ala più innocua dell’estremismo no global. C’erano i Black, le tute nere, i violenti per antonomasia. C’erano gli White, le tute bianche, che usavano la violenza solo per autodifesa. E poi c’erano i Pink, o tute rosa. Il nome già spiega tutto. Alcune centinaia di persone (uomini e donne) tutti rigorosamente vestiti di rosa, con tanto di tutù (sempre uomini e donne) che sfilavano ballando e improvvisando numeri da circo. C’era chi faceva il giocoliere con le clavette, chi circolava su di una bici monoruota, chi camminava sui trampoli. In altre parole, innocui.

Eppure quel pomeriggio non sembravano così pacifici. Mi stavano cacciando dalla tenda a furia di spinte, pugni e calci.

«I ciclisti no global! I ciclisti no global!». Tutti, presi da un fervore di grande eccitazione scattarono fuori dalla tenda. Si erano improvvisamente dimenticati di me!

Black-block

Grazie alla loro divisa nera al volto coperto, i black bloc riescono ad agire
indisturbati,
senza correre il rischio di essere riconosciuti.
Per questo motivo è facile a un estraneo al movimento anticapitalista infiltrarsi
per fare casino o per compiere azioni negative di fronte alle telecamere e alle
macchine fotografiche.

Azioni, queste ultime, che hanno l’unico scopo di mettere in cattiva luce la pacifica
protesta di piazza.


Sul piazzale arrivarono un centinaio di ciclisti con bandierine colorate attaccate al retro del sellino. Cominciarono a girare in tondo tra gli applausi dei Pink e di altri curiosi. La baldoria non durò più di venti minuti.

Non appena i ciclisti si furono allontanati una piccola folla si radunò intorno a un tavolo di legno con delle panche intorno. Qualcosa di molto simile ai tavolacci tipici delle birrerie o delle baite.

Mi avvicinai con circospezione. Quando vidi che avevano steso sul tavolo una pianta di Genova con al centro la Zona Rossa e molti segni e simboli sparsi qua e là mi tuffai in mezzo ai Pink che discutevano e segnavano con le dita punti sparsi sulla mappa.

«Che cos’è?», chiesi a uno di loro.

«La mappa della Zona Rossa. Li vedi quei punti segnalati. Quelli sono i punti nei quali è previsto un assembramento da parte di qualche gruppo. Le croci segnate in rosa siamo noi».

Il tipo, né alcun altro intorno al tavolo, si era reso conto che stava parlando con lo stesso giornalista che avevano tentato di cacciare in malo modo solo venti minuti prima.

«Ci avvicineremo alla Zona Rossa qui, qui e qui».

«E i black?».

«I black fanno come gli pare a loro. Nessuno conosce i loro piani. Loro stanno nei campeggi, sulle colline, in montagna. Speriamo solo che non rovinino tutto».

Quello che avrebbero fatto i Pink era interessante. Ma la mia attenzione era concentrata su altro. Non stavo ricavando le informazioni giuste. Per di più, dopo cinque minuti di spiegazioni cartina alla mano uno di loro, un inglese, mi riconobbe: «Ma è lo stesso giornalista di prima! Che cosa ci fai qui! Vattene!». E di nuovo calci, pugni e spinte.

Incontrai il gruppo dei Pink al completo il giorno dopo, alla manifestazione dei migranti. Quindicimila persone che sfilavano per far sapere ai grandi della terra che i flussi migratori dal Sud del mondo non dovevano rappresentare un problema. Potevano essere una grande risorsa.

Mi trovavo sul ciglio della strada. I Pink stavano sfilando pieni di energia. Riuscivano a infondere buonumore ed entusiasmo ai genovesi che assistevano alla dimostrazione. L’inglese che mi aveva cacciato la seconda volta mi riconobbe. «Ehi! Ciao! Come stai? Hai visto che bello? Ragazzi, guardate chi c’è!». E giù grandi saluti, sorrisi e baci lanciati con le mani. Questi erano i Pink.

A parte qualche acciacco e qualche informazione decorativa, mi ritrovavo allo stesso punto di prima. Era come la notte prima degli esami. Non sapevo che cosa mi sarebbe aspettato il giorno dopo. E se volevo fare bene il mio lavoro non potevo permettermelo.

Ero in procinto di lasciare il ristorante quando mi si avvicinò un poliziotto. Non saprei dire quale grado avesse. Lo conoscevo di vista. Ma evidentemente lui sapeva chi ero e perché fossi lì.

«Sei tu quello che vuole sapere degli scontri di domani?».

«Certo! Mi sa dire qualcosa?».

«Vuoi veramente sapere dove inizierà il macello?».

Non desideravo altro da giorni.

«Allora, stammi a sentire…».

Black bloc

Ce l’avevo fatta. Avevo l’informazione giusta. Tutta da verificare, ovviamente. Ma almeno avevo qualcosa da verificare.

Ero contento. Ed al tempo stesso avevo paura. Quello che avevo saputo lasciava trasparire un accordo tra Black Bloc e forze dell’ordine. Una sorta di spartizione del territorio e delle competenze. Iniziai a pensare che la giornata di venerdì sarebbe stata molto peggio di quanto avessi previsto.

Passai buona parte della mattina del venerdì a circolare per la Zona Rossa. Volevo vedere come si vive in una città appena colpita da una bomba N, quella che uccide le persone e non distrugge le cose. Così si presentava l’interno della Zona Rossa quel giorno. Silenzio, strade vuote, immobilità dell’aria. Come in un film.

Verso le 11 mi avvicinai verso il luogo di appuntamento indicatomi dal poliziotto. Scesi da via XX Settembre in direzione di viale delle Brigate Partigiane, un larghissimo stradone che collega la stazione di Brignole al mare.

La strada era completamente intasata da cellulari di polizia e carabinieri. Tutti messi ordinatamente uno accanto all’altro su tre file. Una vera e propria muraglia di lamiere. Mi resi conto che i manifestanti che venivano da Levante (le tute bianche) solo per raggiungere la Zona Rossa avrebbero dovuto scardinare quel muro. Impossibile!

La cosa ancora più strana, però, era che i cellulari e gli autoblindo erano concentrati in particolare in una traversa di viale delle Brigate Partigiane: via corso Buenos Aires. La cosa assurdamente più strana era che quella strada era esattamente la strada che dovevo percorre per recarmi all’appuntamento. A metà di corso Buenos Aires c’era l’angolo dove, secondo il poliziotto sarebbero iniziati gli scontri. E la polizia era pronta ad intervenire.

Ore 12. Angolo corso Buenos Aires e Piazza Paolo da Novi. Ero arrivato sul posto con una decina di minuti d’anticipo. Giusto il tempo per rendermi conto che in piazza c’era un sit in dei Cobas della Scuola. Circa cinquemila persone, in gran parte di età media tra i trenta e i cinquant’anni, in gran parte dall’aspetto pacifico e innocuo, totalmente in parte del tutto ignari di quello che sarebbe accaduto di lì a poco.

Dunque, ore 12. Con precisione svizzera un gruppo di persone con cappucci e passamontagna, interamente vestite di nero, si avvicinò con aria spavalda all’angolo dell’appuntamento. Del tutto incuranti della presenza di centinaia di poliziotti a pochi metri di distanza i nero vestiti cominciarono a distruggere la banca che si trovava nel suddetto angolo.

«Fatti trovare a mezzogiorno all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi. Arriveranno dei Black Bloc e distruggeranno la banca. Due-tre minuti al massimo. È quello il segnale dell’inizio del macello». Il poliziotto la sera prima non sarebbe potuto essere più esplicito.

Ore 12 (esatto), all’angolo tra corso Buenos Aires e piazza Paolo da Novi (esatto), un gruppo di Black Bloc (esatto) distruggerà una banca in due-tre minuti (esatto). Sarà l’inizio del macello.

Era un minuto che i neri stavano distruggendo la vetrina della banca. La polizia a pochi metri restava immobile. Due minuti. La polizia sempre immobile. Tre minuti! I Black bloc avevano con grande maestria il loro lavoro sotto gli sguardi allibiti e le proteste dei Cobas. La polizia sempre a pochi metri e sempre immobile.

Cominciavo a pensare di aver avuto un’informazione sbagliata, almeno in parte. I nero vestiti persero qualche altro minuto a divellere alcuni marciapiedi della piazza per accumulare sampietrini da lanciare. Sempre nulla. La polizia a guardare.

Ore 12.10, i Black Bloc si ritirarono con grande rapidità, lasciando la piazza in mano ai Cobas (come prima), ma anche con una certa quantità di macerie, segno del loro passaggio. Era solo in quel momento, solo quando il posto era sgombero dai neri, che la polizia, tra urla e botti per lo sparo di lacrimogeni, decideva di attaccare. Non di inseguire i Black, ma di attaccare gli inermi ed innocenti Cobas della Scuola.

Il poliziotto aveva detto il vero. Si era accesa la miccia che avrebbe fatto esplodere Genova. Il “macello” era iniziato.

Tratto da: indygraf.com

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