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fiandaca-giovanni-5di Pippo Giordano - 1° giugno 2015
Non si capisce come un insigne giurista, quale è Giovanni Fiandaca, possa sostenere che la trattativa Stato-mafia è stata legittima. La mafia che ho conosciuto io non può esserlo...

Il potere, a dispetto della pensiero andreottiano, logorò la mente di Totò Riina. S'era convinto d'essere un moderno Cesare, con veto di vita e di morte verso tutti. La prosopopea d'essere il padrone assoluto di Palermo e dintorni, fece fallire il suo progetto di divenire il “Re” assoluto della mafia siciliana e non solo.

Non dico una baggianata quando affermo che la megalomania del Curtu di Corleone (il basso di Corleone), fu alimentata e foraggiata da personaggi delle Istituzioni con un patto del tipo: ” ..viviamo tutti insieme felici e mafiosi”. Del resto, basta spulciare le condanne per concorso esterno alla mafia di Dell'Utri, di Totò -vasa vasa- Cuffaro, di Contrada e di tanti altri condannati in via definitiva per capire quale fu il connubio mafia/politica.

E poi dovremmo anche aggiungere i morti eccellenti, rei di non aver mantenuto i “patti” nell'assicurare l'esito pro mafiosi del max-processo. L'inizio della fine dell'impero di Riina iniziò il 23 aprile 1981, quando decise di uccidere, il giorno del suo 42esimo anno di età, “U Falco”, ovvero il principe di Villagrazia, Stefano Bontate. A seguire arrivò l'omicidio di Totuccio Inzerillo. I due omicidi segnarono definitivamente un'insanabile frattura in seno a Cosa nostra e appare ancora oggi riduttivo affermare che all'epoca vi fu una guerra di mafia. Niente affatto, nessuna guerra attraversò le file di Cosa nostra, ma invero, una “mattanza” tipica delle pulizie etniche di memoria balcanica, voluta da Totò Riina per assicurarsi la leadership di Cosa nostra.

In buona sostanza, il mancato Re innescò una caccia all'uomo di quanti erano rimasti fedeli a Bontate o comunque non “allineati” alla sua crescente egemonia del territorio. Gli uomini d'onore, decimati e rincorsi in ogni luogo, vennero etichettati con disprezzo “gli scappati”. Nell'arco temporale che va dal 1981 al 1984, nel solo capoluogo siciliano, si registrarono migliaia di morti. La cosa davvero triste era che mentre la Carta costituzionale editata nel '48 abrogava la pena di morte, in Sicilia Totò Riina ordinava omicidi con frequenza e quantità simile da far rabbrividire qualsiasi persona di sano intelletto.

Ricordo che, nel 1984, in una stalla di piazza Scaffa, a Palermo, vennero trucidate otto persone. E lo Stato? Lo Stato era lì, presente e assente, a seconda i punti di vista. Presente quando, a mo' di pupiata, dopo l'omicidio di Dalla Chiesa mandò in Sicilia mille agenti, che noi definimmo il “secondo sbarco dei mille”. Assente, perchè non volle “colpire” con estrema durezza il gotha di Cosa nostra, permettendo la morte violenta di onesti magistrati, poliziotti, carabinieri e politici, lavandosi poi la coscienza con la posa di una corona d'alloro, mentre nel frattempo strizzava l'occhio ai potentati che erano tutta una “cosa” con Cosa nostra.

A me quel che dispiace, e lo dico con onestà, è leggere che un insigne ed esimio giurista, come il prof Giovanni Fiandaca (autore, insieme con Giovanni Lupo, di un libro in cui critica l'impianto del processo sulla trattativa Stato-mafia, La mafia non ha vinto, edito da Laterza), affermi che la trattativa Stato-mafia è da ritenersi “legittima”. Io non so quale mafia abbia conosciuto il prof Fiandaca, di certo dovrebbe essere diversa da quella che conobbi io da bambino/ragazzo prima e da sbirro poi.

Il ragionamento del prof Fiandaca mi riporta agli anni della giovinezza, quando il solo veder passeggiare sottobraccio uomini d'onore e politici sintetizzava a furor di popolo un palese e tacito accordo tra loro. E mi spiace che lo stesso prof non sia stato eletto al Parlamento europeo: l'intera Europa di sicuro si sarebbe giovata dalla lungimiranza di un così esimio giurista e conoscitore di cose di mafia.

Non capisco questo accanimento verso la Procura di Palermo, prima verso Caselli e ora verso Nino Di Matteo: addirittura per certi versi anche in contrasto col magistrato Giovanni Falcone, sul concorso esterno in associazione mafiosa. Non gli piace che la magistratura si occupi della trattativa Stato mafia? Vogliamo ritornare indietro, prof Fiandaca, quando a Palermo vivevano “ncutti (vicino) mafiosi e politici?

E no, prof Fiandaca, venga con me, le faccio visitare le vie e le piazze dove i miei occhi videro i corpi maciullati di Pio La Torre, Dalla Chiesa, dei miei colleghi e carabinieri ammazzati: venga con me e le faccio vedere dove negli anni '70/'80 alcuni onorevoli nazionali e siciliani si riunivano per incontrare il gotha di Cosa nostra.

E lei mette in discussione la fattispecie di reato voluto da Falcone? Ma per favore! E' facile parlare quando nel corpo non si portano ferite difficilmente sanabili: è facile stare seduto su una cattedra universitaria e disquisire sul comportamento della Procura di Palermo, che peraltro ha pagato un durissimo prezzo. E allora esimio prof vada a dire ai familiari vittime della violenza mafiosa che il concorso esterno è un obbrobrio, vada a dire che la trattativa Stato mafia è legittima.

Ritornando a Totò Riina, egli ha voluto strafare, forse inebriato dal potere: un potere di vita o di morte. E' stata proprio l'arroganza d'essere il “centro” del mondo che innescò il suo declino. Era convinto d'essere divenuto l'unica suprema autorità, e lo dimostrò con le stragi del '92/'93. E come dargli torto se uno Stato imbelle gli permise anni e anni di latitanza, sino a ricevere un suo “papello”?

Il declino dei “corleonesi” è sotto gli occhi di tutti, ma sopravvivono “menti raffinatissime” che di certo non hanno i “peri incritati”: menti, dedite da anni e anni a trattare, ad essere il collante degli indicibili accordi tra Stato e mafia. Lo Stato non può e non deve abdicare al primo reuccio che si presenta in scena.

Lo Stato non può e non deve trattare coi delinquenti e con gli assassini, altrimenti, egregio prof Fiandaca, calpesteremo la memoria di chi ha pagato con la vita la fedeltà allo Stato. Noi siamo l'Italia e non un Paese sudamericano. Se dipendesse da me punirei senza se e senza ma, anche la semplice stretta di mano tra un mafioso e un politico. Altro che concorso esterno.

E quindi ben vengano uomini come il magistrato Nino Di Matteo, che rappresentano un ostacolo alla continuazione di un “sistema” collaudato da tempo, ovvero il “vizio” di trattare coi mafiosi. Infine, lo stesso magistrato Paolo Borsellino si mise di traverso e morì per la cocciutaggine di non accettare “ il puzzo del compromesso” e di rompere la discontinuità degli “accordi”. La sua Agenda Rossa, che rappresentava il bancomat della verità, fu vigliaccamente rubata. Il declino dei “corleonesi” è avvenuto, vorrei vedere altri declini, se non altro per rispetto ai nostri martiri della violenza mafiosa.

Tratto da: lavocedinewyork.com

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