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di Pippo Giordano - 29 aprile 2015

La Squadra mobile di Palermo rappresenta la punta di diamante, un fiore all'occhiello della Polizia italiana. In passato, autorevoli esperti della lotta alla mafia, anche de FBI, la definirono “L'Università delle investigazioni”. Di contro, il noto giornalista/scrittore Francesco La Licata - voce narrante del documentario su Cassarà - la definì “L'avamposto degli uomini perduti”. Due facce della stessa medaglia: la gioia della vita, l'affermazione di un ideale e l'incombente morte che attanagliava le nostre menti. La Mobile era ed è un ufficio di tutti, ma non per tutti: farne parte è stato un privilegio. Un valore aggiunto che usai con certosina opera, direi in punta di piedi, talchè non era permesso essere “io” ma invero “noi”: eravamo la Squadra, strutturata in sezioni. Allorquando, fui “costretto” nei primi anni ottanta a lasciare la mia città natia, Palermo, non riuscii più a salire le scale della Mobile: troppi amari ricordi aleggiavano nella mia mente, troppe ferite laceranti e mai rimarginate segnavano e segnano il mio corpo.
Nello scorso mese di luglio, finalmente ho vinto la paura e sono salito nel “mio” ufficio. La mia Sezione investigativa di Ninni Cassarà. Con gli occhi umidi ho rimembrato la mia vita vissuta insieme a chi è stato meno fortunato di me. Ho guardato le stanze, ho immaginato rivoli di sangue innocente scendere giù dalle parete che rappresentarono i migliori anni della nostra vita professionale: una Sezione, tante menti ma un solo cuore e un solo capo, Ninni Cassarà. Faccio fatica a descrivere determinate sensazioni, bisognava farne parte per comprendere che quel manipolo di uomini di un avamposto perduto, rappresentava lo Stato: rappresentava il sogno dei palermitani onesti che riponeva in noi tutte le loro speranze di una città senza condizionamenti mafiosi.

Sovente rifletto sul ruolo che il destino m'aveva assegnato e giammai, nemmeno per un istante, pensai di ritirarmi dall'avamposto. Certo, poi fui obbligato da ordini superiori, ma ciò non m'impedì, dopo aver messo in sicurezza la mia famiglia di ritornare a Palermo e finire quel che avevo lasciato in sospeso. Raggiunsi il commissario Beppe Montana e continuammo la nostra strada
investigativa. Poi, due mesi dopo che ero ripartito da Palermo, Beppe Montana fu ucciso, era il 28 luglio 1985. Beppe, un eterno ragazzo, allegro, solare che della ricerca dei latitanti mafiosi aveva fatto la sua ragione di vita. Ma ancor prima di Beppe, fu ammazzato un ragazzo di soli 26 anni Lillo Zucchetto, era il 14 novembre del 1982; io ero il suo capo pattuglia. Una vita spezzata sol perchè avevamo catturato la domenica, quindi sette giorni prima, il capo famiglia di Villabate. Nemmeno il tempo di seppellire Beppe Montana, che il 6 agosto del 85, il mio capo, il vice Questore Ninni Cassarà, cadde in un agguato innanzi agli occhi della moglie. Insieme a Ninni morì un ragazzo di 22 anni, un agente di polizia Roberto Antiochia; rimase illeso l'altro agente, amico fidato di Cassarà, Natale Mondo che si riparò sotto l'auto. Ma anche Natale Mondo fu poi assassinato a Palermo il 14 gennaio 1988. I colleghi che ho ricordato, non sono stati, purtroppo, gli unici della Squadra mobile palermitana, che hanno pagato con la vita l'attaccamento al proprio dovere. La Mobile conta altri cinque morti, dei quali Aparo Filadelfio,(1979) che ho conosciuto per un'indagine condotta insieme, e poi al corso sottufficiali. Il dirigente della Squadra mobile Boris Giuliano, (1979) l'agente Gaetano Cappiello (1975) e i marescialli Silvio Corrao (1963) e Lenin Mancuso (1979). Dieci morti ammazzati nel totale disinteresse di un imbelle Stato, che con una mano posava le corone d'alloro sulle bare e con l'altra omaggiava il gotha mafioso. A noi tutti non interessavo lo Stato, noi continuammo a percorrere, come avviene anche oggi, il percorso tracciato dai nostri martiri: nessuno mai disse, “non posso ho un impegno”: prima veniva la Mobile, perché contrastare Cosa nostra era il sentimento comune che ci univa. Sapevamo bene che per combattere la mafia dovevamo vivere: sapevamo, altresì, che per distruggerla potevamo anche morire. La follia era il nostro vivere quotidiano. Oggi, la Squadra mobile di Palermo ci rappresenta e ci fa sentire orgogliosi di essere stati poliziotti di una grande Squadra investigativa. Ed oggi come allora, appena scatta un allarme, si sale di corsa sulle auto e si ricomincia.......nessuno di noi ha mai detto e mai dirà, ho finito il turno! Si corre e si corre, per i nostri martiri, per i nostri figli e per Palermo tutta!

Foto originale © Ettore Marini


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