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buscetta-tommasodi Pippo Giordano - 9 febbraio 2015
In passato, quand'ero con Ninni Cassarà, l'avevo conosciuto attraverso la voce delle telefonate intercettate, diceva di chiamarsi “Roberto”. Parlava dall'America del Sud e non era ancora diventato collaboratore di giustizia. Nei primi anni ottanta, quando Palermo era la Beirut della Trinacria, avevo visto ammazzare i suoi familiari, una dozzina, tra i quali due figli, scomparsi con la lupara bianca, il genero e il fratello. Per gli omicidi del fratello di Buscetta, Vincenzo e di suo figlio, intervenni nella vetreria dove era avvenuto il duplice omicidio e solo per un caso fortuito non catturai i killer; ero a pochi passi ma un camioncino della coca cola, mi sbarrò la strada nel fare manovra. Tommaso Buscetta, alias Roberto, era da sempre un personaggio che m'incuriosiva. In questi giorni, ho ritrovato un verbale d'interrogatorio di Buscetta, che reca anche la mia firma. Era il 25/26 novembre del 1992.

Le stragi di Capaci e via D'Amelio erano già, purtroppo, avvenute. Avevo incontrato Tommaso Buscetta il giorno precedente, quindi senza “scrusciu e batteria” lo prelevai, da solo, dal suo rifugio e lo condussi negli uffici della DIA, per essere sottoposto ad interrogatorio. Ad attenderci c'erano i magistrati Roberto Scarpinato, Guido Lo Forte, Giuseppe Pignatone e Gioacchino Natoli. Il giorno dopo, si unisce a noi anche il magistrato Giusto Sciacchitano. Terminati gli interrogatori, andai spesso a trovare Buscetta, sino a quando non fece ritorno negli USA. Questi sono i fatti, ma io vorrei parlare dell'uomo Buscetta. Di Buscetta mi ha colpito la totale freddezza nel raccontare il suo vissuto. E io che assistevo silente ai suoi racconti, potevo meglio cogliere ogni movimento della sua  fronte o del viso, non una smorfia, non un segnale di debolezza della sua voce. Parole, ferme e soprattutto poche, non dette a sproposito. E mentre lui rispondeva alle domande dei giudici, ebbi la strana sensazione di vedere in lui, un comportamento analogo col dottor Giovanni Falcone, ovvero compostezza nel gesticolare e nel parlare: anche il giudice Giovanni Falcone, infatti era parco nell'esprimersi. Il mio primo incontro con Buscetta, creò in lui una certa preoccupazione, talchè mi chiese di quale zona di Palermo provenivo. Avuta risposta, espresse manifesta preoccupazione. La persona che era con noi lo tranquillizzò : “ è come mio fratello” e subito si chetò, tant'è che essendo ora di pranzo, lo stesso Buscetta volle cucinarci un piatto di spaghetti alla “carrettiera”, ossia, aglio, olio e peperoncino. A mio modesto parere, Tommaso Buscetta era il prototipo dei mafiosi che avevo conosciuto da ragazzo, nei territori di Ciaculli, Brancaccio, Bagheria, Villabate, Bolognetta, Marineo e Partinico. Mafiosi diversi da Totò Riina, che rappresentavano, almeno nel mio immaginario, i mafiosi di poche parole e di poche “pupiate”. Personaggi, che quando parlavano di lavoro con mio padre si limitavano all'essenziale ed io sempre in disparte potevo cogliere le sfumature dei loro gesti. Ecco, u zu Masinu Buscetta, li rappresentava tutti col suo modo di parlar poco e sono convinto, che se fosse divenuto il capo di Cosa nostra siciliana, nessuna strage mafiosa avrebbe insanguinato l'Italia. Per me che sono cresciuto a pane e mafia, ma non al punto da essere ammaliato, ascoltare Buscetta mentre veniva interrogato mi faceva vedere l'amaro film della mia lotta alla mafia, dove le parole the end, mi riportavano alla triste realtà dei miei amici  ammazzati dalla mafia. Ho conosciuto decine e decine di uomini d'onore, ma solo Don Masino Buscetta coi suoi ripetuti roboanti silenzi, pronunciati in un anonimo appartamentino romano, mi fece comprendere quanto di vero c'è nel detto siciliano “ na parola è troppa e mezza è supecchia”.
Tommaso Buscetta, fu un uomo ferito, ma non vinto.

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