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di Fabio Repici - 18 dicembre 2014
Dal processo in corso a Palermo sono emersi nuovi elementi sugli incontri tra esponenti dello Stato e del mondo mafioso andati in scena nella località turistica siciliana.
Filippo Malvagna era un mafioso di Catania, nipote del Malpassoto Giuseppe Pulvirenti, agli ordini di Benedetto Santapaola, capoclan alle pendici dell’Etna ai tempi d’oro di Cosa Nostra.
Da circa un ventennio Malvagna collabora con la giustizia e il 27 giugno scorso è stato sentito dalla Corte di assise di Palermo nel processo sulla trattativa Stato-mafia. La sua deposizione ha fornito, tra gli altri, uno spunto molto interessante, allorché il p.m. Roberto Tartaglia gli ha fatto l’ultima domanda: “Ha avuto modo di conoscere o di sentire parlare di un soggetto di nome Rosario Pio Cattafi?”.
Così ha risposto Malvagna, con parole che, molto al di là di quanto abbia potuto pensare il nipote del Malpassoto, aprono squarci finora inesplorati sul biennio stragista e trattativista di Cosa Nostra: “Ne ho sentito parlare da Aldo Ercolano (nipote di Nitto Santapaola, n.d.a.) e parlava di un certo Cattafi … (Ercolano, n.d.a.) ci ha dato incarico a me e a Salvatore Grazioso di andare a visionare un immobile che si trovava tra Taormina e Letojanni, immobile che loro intendevano acquistare in quanto era loro intenzione fare una sede di riunioni dove dovevano partecipare imprenditori, gente delle istituzioni, si parlava di roba di massoneria … (Cattafi, n.d.a.) era una delle persone più interessate a portare questi personaggi in questa abitazione … Loro dicevano che questo Cattafi, non mi ricordo se era un avvocato o comunque non era un pregiudicato, era una persona pulita, avesse agganci con il mondo dell’imprenditoria, qualcuno delle istituzioni, cioè faceva parte della massoneria … Siamo nel 1992, siamo prima degli eventi delle stragi, siamo nel gennaio o febbraio 1992 … Loro (Aldo Ercolano e Giuseppe Pulvirenti, n.d.a.) mi hanno detto che (Cattafi, n.d.a.) conosceva politici, conosceva esponenti di servizi segreti, cioè loro mi hanno detto che in poche parole era massone, mi hanno detto che conosceva sia esponenti di servizi, sia esponenti politici, sia imprenditori e addirittura mi hanno detto che conosceva anche magistrati”.

La fase stragista

Ricapitolando: all’inizio del 1992, in concomitanza con la sentenza della Corte di cassazione che il 30 gennaio 1992 confermò le condanne del maxiprocesso e con i preparativi per la campagna di morte che sarebbe partita il 12 marzo (omicidio di Salvo Lima) e proseguita il 23 maggio (Capaci) e il 19 luglio (via D’Amelio), Aldo Ercolano (in quel momento avviato ormai a fare da reggente della mafia catanese al posto dello zio Benedetto Santapaola, latitante) aveva in mente di impiantare nei dintorni di Taormina la sede per incontri riservati (in odore di massoneria) fra emissari di Cosa Nostra e rappresentanti di organi istituzionali, del mondo imprenditoriale e della classe politica; e al centro di questo strano cenacolo taorminese c’era Rosario Pio Cattafi, personaggio in questo momento detenuto al 41 bis come capo della famiglia mafiosa di Barcellona Pozzo di Gotto dagli anni Settanta al 2012, secondo la condanna emessa un anno fa in primo grado dal Tribunale di Messina.

Cattafi e Taormina? Sarà pure un caso, ma a leggere gli allegati di un’informativa del Gico di Firenze, del 3 aprile 1996, si rischia di fare un salto sulla sedia. Vediamo perché. Cattafi al tempo da oltre un decennio divide la sua vita di mafioso di stato (secondo le risultanze del processo a suo carico) fra Milano e la nativa Barcellona. Eppure, con incredibile coincidenza temporale rispetto ai fatti raccontati da Malvagna, il 30 gennaio 1992 Cattafi stipula un contratto di affitto con cui ottiene per un anno (con possibilità di rinnovo), a partire dall’1 febbraio, la disponibilità di una villa a Taormina. Un immobile sicuro e al di sopra di ogni sospetto, visto che il proprietario è addirittura un magistrato, milanese di origine messinese: probabilmente Cattafi gli viene presentato come interlocutore inappuntabile da qualche congiunto (un suo fratello in quel momento è assessore regionale in Sicilia e di lì a poco ne diventerà presidente per un anno e mezzo e la sua rete anche parentale di relazioni coinvolge appieno Cattafi) o da qualche collega milanese, provocandogli l’imbarazzo che lo colpirà quando, a ottobre 1993, Cattafi finirà in manette nell’indagine fiorentina sull’autoparco della mafia a Milano. Del resto, che il proprietario della villa non abbia piena contezza di chi sia realmente Cattafi è dimostrato perfino dal contratto firmato dai due contraenti, laddove il capomafia barcellonese viene qualificato col titolo di “dottore”, seppure in quel momento egli non abbia ancora conseguito la laurea.

Taormina curiosamente assume una sua peculiare centralità anche in tempi successivi. Il 4 giugno 1993 il governo Ciampi e il ministro Conso (ma sottotraccia soprattutto il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro) cacciano in modo poco amichevole dalla guida del Dap lo storico direttore Niccolò Amato e il suo vice Edoardo Fazzioli. Già da tempo telefonate di sedicenti appartenenti alla Falange Armata e un documento inviato da presunti familiari di detenuti ristretti al 41 bis, tra gli altri, al Presidente della Repubblica e al Papa hanno richiesto brutalmente l’allontanamento del “dittatore” Amato e dei dirigenti fedeli alla sua linea di fermezza sul 41 bis. Sarà una coincidenza, ma, per l’appunto, il 4 giugno quelle lamentele vengono di fatto accolte. E, puntuale, il 14 giugno 1993 la solita Falange Armata, con l’ennesima telefonata, manifesta soddisfazione per la destituzione di Amato, considerata un proprio successo. Il Dap viene affidato (dopo una strana concertazione fra il presidente Scalfaro, il ministro Conso e il capo dei cappellani delle carceri Cesare Curioni, già coinvolto in ipotesi di trattativa ai tempi del sequestro Moro) al nuovo direttore, Adalberto Capriotti, personalità mite e non incline al comando, e soprattutto al vicedirettore, Francesco Di Maggio, magistrato mai occupatosi del mondo carcerario ma, secondo l’informativa del Gico di Firenze di cui si è detto, legato a Cattafi da rapporti personali. La sua nomina fu giustificata dal ministro Conso davanti ai magistrati con parole indimenticabili: la scelta era ricaduta su Di Maggio (che non aveva nemmeno i titoli, tanto che per la sua nomina fu necessaria l’emanazione di un decreto del Presidente della Repubblica che, su delibera del Consiglio dei ministri, gli assegnava la qualifica di dirigente generale della pubblica amministrazione) perché nelle sue performances al “Maurizio Costanzo Show” era parso davvero in gamba.

Registro degli ingressi

Sia come sia, con l’insediamento del duo Capriotti-Di Maggio, l’ufficio detenuti del Dap viene affidato a Filippo Bucalo, magistrato di origine barcellonese e, soprattutto, antico amico di Rosario Cattafi. Ad agosto 1993 Bucalo va in vacanza, manco a dirlo, a Taormina. Dal 25 agosto al 3 settembre alloggia in un lussuoso albergo solitamente frequentato da Cattafi e da sodali di quest’ultimo. Ma, stando a quanto dichiarato da Cattafi ai pubblici ministeri di Palermo, Bucalo in quel 1993 frequenta Taormina anche qualche settimana prima, se il 14 agosto è addirittura ospite alla festa di diciotto anni del figlio di Cattafi. Il registro degli ingressi in quell’albergo dice, però, anche altro: quel 25 agosto 1993, subito dopo l’arrivo di Bucalo e della moglie, magistrato tuttora in servizio a Roma, nello stesso albergo viene registrato l’arrivo di un personaggio negli ultimi anni divenuto parecchio famoso e all’epoca quasi sconosciuto alle cronache. Si chiama Ignazio Moncada e a seguito delle intercettazioni della Procura di Napoli su Finmeccanica divenne noto come il “grande burattinaio” della grande holding di Stato, tra l’altro proprietaria di società produttrici di armi. Così l’allora capo dello Ior Ettore Gotti Tedeschi allertava confidenzialmente Luigi Orsi, in quel momento amministratore delegato di Finmeccanica, su Moncada: “Non semplificarlo come agente segreto della Cia, o un massoncello qualsiasi, è veramente un grandissimo burattinaio”. E proprio a Moncada nel giugno 2012, in un’altra conversazione intercettata, l’ex ministro Tremonti offriva un cd con le intercettazioni segretissime fra Mancino e il capo dello Stato, oggetto poi del famoso conflitto istituzionale fra Napolitano e la Procura di Palermo. Sentito dai pubblici ministeri, Tremonti glissò: si sarebbe trattato di parole scherzose.

Torniamo all’estate 1993 e all’albergo di Taormina. Si trovano, dunque, casualmente o meno, tutti insieme: Cattafi, Filippo Bucalo e Ignazio Moncada. Quest’ultimo è legatissimo anche alla banda del Sisde che in quel momento è nei guai per i fondi neri del Sisde. A ottobre 1993 uno dei più stretti amici di Moncada, Michele Finocchi, capo di gabinetto del direttore del Sisde Malpica, sarà costretto per oltre nove mesi alla latitanza e a pagargliela, secondo notizie di stampa mai smentite, sarà anche Moncada, il quale, peraltro, come raccontato su Repubblica da Ettore Boffano e Paolo Griseri nel 2007, prima di fare carriera in Finmeccanica aveva mosso i primi passi al Sid con Maletti e poi, trasferitosi a Torino, era entrato nella dirigenza della Fata, grossa società di produzione di impianti industriali, particolarmente attiva negli impianti per la produzione di petrolio e di gas. Si incontrano Cattafi e Bucalo con il referente del Sisde? Si incrociano i discorsi sul 41 bis e le vicende del Sisde? Se si vuole essere ragionevoli non lo si può escludere, tanto più se si presta attenzione a quello che accade nell’autunno di quel 1993. Ma soprattutto se si presta attenzione a una conversazione del 27 settembre 1992 fra il più stretto sodale di Cattafi, Filippo Battaglia, e tale dr. Tabacchi di Milano, anch’essa riportata dagli investigatori del Gico di Firenze, laddove il compare di Cattafi dice di “avere delle belle cose per le mani: Danieli e Fata di Torino in Venezuela e Breda in Marocco”. Sì, proprio la Fata di Ignazio Moncada.

Il 7 ottobre Rosario Cattafi viene arrestato su ordine del Gip di Firenze nell’indagine sull’autoparco della mafia a Milano. Ecco, quindi, che l’amico di Di Maggio e di Filippo Bucalo (cioè del vicedirettore e del capo ufficio detenuti del Dap) fa ingresso, da detenuto, nelle patrie galere. Tra meno di un mese arrivano in scadenza 334 decreti applicativi del 41 bis per altrettanti mafiosi detenuti. È il momento giusto, dunque, per raccogliere gli umori nelle carceri se quel segnale arriverà, se il governo farà scadere quei decreti, senza prorogarli. È lo stesso Cattafi a raccontare nel 2012 ai magistrati di Palermo che il nome del suo difensore a ottobre 1993 gli viene suggerito da Filippo Bucalo. Si tratta dello stesso legale che qualche anno dopo assisterà Pierfrancesco Guarguaglini (arrestato dalla Procura di La Spezia nella qualità di presidente di Oto Melara, anni dopo divenuto presidente di Finmeccanica) e che diventerà a sua volta consigliere d’amministrazione di Oto Melara, azienda produttrice di armi. Quando Cattafi viene ammanettato, i militari del Gico di Firenze rilevano, anche attraverso le sue agende e l’analisi del suo traffico telefonico, l’importanza, insieme ai suoi legami mafiosi, delle sue relazioni sociali. Vengono condensate anch’esse nell’informativa del 3 aprile 1996, nella quale spiccano nomi altisonanti: dalla Associazione milanese Amici della lirica al circolo barcellonese Corda Fratres dell’ex Procuratore generale di Messina Franco Cassata (i cui recapiti anche privati erano nell’agendina di Cattafi), dall’attore Gianfranco Jannuzzo agli allora coniugi Pippo Baudo e Katia Ricciarelli, dalla giornalista Carmen La Sorella all’allora sottosegretario alla Difesa Dino Madaudo, dall’ex sottosegretario piduista Renato Massari ai responsabili di numerosi enti pararegionali siciliani, dall’ex viceprefetto di Messina Giuseppe Rizzo (suo “camerata” in gioventù) all’ex presidente della Consob Bruno Pazzi, dall’allora amministratore della Oto Melara Arcangelo Ferrari al dirigente della Alenia Giuseppe Ciongoli (già finito nei primi anni Ottanta nelle investigazioni di Carlo Palermo a Trento), dal dirigente della Oto Melara Alberto Conforti a Mimmino Ripa della Breda, da Leopoldo Rodriquez dell’omonima società di cantieri navali a Salvatore Mancuso, amministratore della stessa Rodriquez s.p.a. e in anni successivi impegnato nel private banking in Svizzera e in Lussemburgo, per diventare prima vice presidente di Alitalia e poi, in quota al Ncd di Angelino Alfano, consigliere d’amministrazione di Enel, incarico lasciato il mese scorso, in contemporanea con il suo rinvio a giudizio a Milano insieme all’immobiliarista Luigi Zunino per aggiotaggio.

Stando alle dichiarazioni rese da Cattafi ai pubblici ministeri di Palermo (che, però, vanno prese cum grano salis, infarcite come sono di menzogne; la più plateale: Cattafi sarebbe stato cooptato da Di Maggio nella trattativa Stato-mafia – con l’improbabile compito di rintracciare l’avvocato del mafioso Cuscunà per entrare così in contatto con il boss Santapaola, che fino a qualche settimana prima era latitante proprio nel barcellonese sotto le cure della famiglia mafiosa guidata da Cattafi – mentre i due stavano seduti ai tavolini di un noto bar messinese sul marciapiede di una delle strade più frequentate della città, una trattativa en plen air al cospetto di alti ufficiali del R.o.s., la cui identità però si è persa nei labirinti della memoria del dichiarante) egli, proprio per volontà dell’amico Di Maggio, avrebbe avuto insolita possibilità di movimento all’interno delle carceri. Del resto, altri testimoni, e perfino l’allora consigliere del Presidente della Repubblica, Loris D’Ambrosio, inconsapevolmente intercettato, hanno rivelato una certa elasticità di Di Maggio nella gestione dei movimenti e dei contatti di detenuti confidenti. E il pentito Maurizio Avola, proprio su Cattafi, ha riferito ai magistrati di aver appreso dal boss catanese Carletto Campanella che quest’ultimo, trovandosi al 41 bis al carcere di Cuneo, ricevette la visita del tutto incontrollata di Cattafi, corroborando così i propri sospetti sui legami del mafioso barcellonese con i servizi segreti.

Ricatti e telefonate

Torniamo a Taormina. La ridente località turistica continua a rimanere centrale anche nell’autunno 1993. Si sa che quello è il mese in cui il tentativo di ricatto ai danni del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, raggiunge il clou, in una manovra a tenaglia. Da un lato sono gli ex dirigenti del Sisde, coinvolti nello scandalo sui fondi neri e incarcerati (ad eccezione di Michele Finocchi, che si dà alla latitanza), a tirare pesantemente in ballo il capo dello Stato con allusioni a un suo coinvolgimento risalente agli anni in cui Scalfaro era ministro dell’interno. Dall’altro, ci sono le sempre più inquietanti telefonate della Falange Armata. La sigla evocativa di un oscuro gruppo eversivo (e che secondo alcuni pentiti catanesi doveva essere utilizzata strategicamente da Cosa Nostra per rivendicare i propri delitti in una logica da strategia della tensione), dopo aver rivendicato omicidi e stragi (gli omicidi dell’educatore penitenziario Umberto Mormile, di Salvo Lima, del maresciallo Guazzelli, le stragi mafiose da Capaci in poi, e altri innumerevoli delitti) e dopo aver invocato l’allontanamento di Nicolò Amato dal Dap, prende di mira con messaggi sibillini il presidente Scalfaro. La ricerca dell’utenza da cui partono le telefonate della Falange Armata porta gli investigatori a Taormina, alla casa di un educatore penitenziario, cioè un dipendente del Dap, originario del barcellonese, Carmelo Scalone. Intercettate ulteriori telefonate dalla linea telefonica di casa sua, Carmelo Scalone il 25 ottobre 1993 viene arrestato. Va detto che Scalone, dopo la condanna in primo grado, viene poi assolto in appello dall’accusa di essere il telefonista della Falange Armata.

Certo è che nei giorni successivi all’arresto di Scalone, quando sui giornali iniziano a filtrare le accuse di Maurizio Broccoletti, ex direttore amministrativo del Sisde, la tensione nel palazzo del Quirinale è alle stelle. E la sera del 3 novembre Scalfaro va in televisione, a reti unificate, quasi a urlare: “Io non ci sto!”. Nella memoria degli italiani sono rimaste soprattutto quelle quattro parole piene di rabbia. Un ascoltatore attento avrebbe, però, prestato maggiore attenzione a quelle iniziali, davvero sconcertanti: “Una constatazione: prima si è tentato con le bombe, ora con il più vergognoso e ignobile degli scandali”. Quando Scalfaro parla, ancora le indagini sulle bombe mafiose (tutte rivendicate dalla Falange Armata) esplose fra maggio e luglio 1993 a Roma, Firenze e Milano sono in alto mare. Eppure il capo dello Stato le collega ai ricatti contro di lui e contro gli altri vertici istituzionali, anticipando di un ventennio l’ipotesi della minaccia a corpo politico che è al centro del processo palermitano sulla trattativa Stato-mafia.

In quei giorni c’è una scadenza che sta molto a cuore agli uomini di Cosa Nostra. Dall’1 novembre sono in scadenza 334 decreti applicativi del 41 bis ad altrettanti mafiosi detenuti. Già a fine giugno i vertici del Dap subentrati ad Amato con il placet di Scalfaro hanno lanciato l’ipotesi di ridurre il numero dei destinatari del 41 bis per “non inasprire ulteriormente il clima all’interno degli istituti” e dare “un segnale positivo di distensione”, che Cosa Nostra avrebbe sicuramente accolto favorevolmente. Del resto, l’abolizione del 41 bis è al centro delle richieste formulate nel famoso papello (di cui ha parlato Giovanni Brusca) da Riina allo Stato. A fine ottobre 1993 il momento della distensione sembra arrivato. Sennonché, con una nota inviata il 29 ottobre 1993 dal dr. Andrea Calabria, vice capo dell’ufficio detenuti, la Procura di Palermo, richiesta di un parere sui 334 decreti di 41 bis in imminente scadenza, viene allertata con l’indicazione di tutti i nominativi che beneficerebbero della mancata proroga. Ci sono nomi importanti, perfino esponenti della commissione regionale di Cosa Nostra. C’è pure un mafioso catanese operante da sempre a Milano, che è molto legato a Cattafi e che è il dominus dei traffici dell’autoparco di via Salomone: Luigi, detto Gimmi, Miano. Andrea Calabria fa parte della vecchia guardia del Dap, fedele alla linea dura dettata da Amato sul 41 bis. Pare evidente che voglia mettere sull’avviso la Procura guidata da Giancarlo Caselli, con quella documentata, per quanto repentina e tardiva, richiesta di parere trasmessa a mezzo fax. Il 29 ottobre 1993 è un venerdì che anticipa il ponte festivo di Ognissanti. Caselli ha appena lasciato Palermo ma i suoi vice Luigi Croce e Vittorio Aliquò si premurano in tutta fretta, la mattina dopo, di rispondere con un altro fax con cui intimano al Dap e al ministro che venga confermato il 41 bis per tutti i detenuti. Fatica sprecata: i 334 decreti di 41 bis vengono fatti decadere. Anzi, sul fax spedito dalla Procura di Palermo al Dap si legge un’annotazione adirata scritta di pugno da Francesco Di Maggio e indirizzata a Filippo Bucalo, capo dell’ufficio detenuti e sovraordinato ad Andrea Calabria.

È proprio mentre il ministro Conso e i vertici del Dap (da lui voluti) “stanno” facendo scadere centinaia di 41 bis che Scalfaro urla il suo “non ci sto!”. In quel momento Rosario Cattafi è detenuto ma non al carcere duro. Ci rimane fino a ottobre 1997. Poi per lui il processo per l’autoparco della mafia a Milano finisce, dopo alterne vicende, nel migliore dei modi, con la Corte di cassazione che annulla la condanna pronunciata dalla Corte di appello di Milano. Cattafi rientra a Barcellona e ci rimane fino al 2012. Fatto salvo un decreto emesso dal Tribunale di Messina, con il quale gli viene irrogata per cinque anni la sorveglianza speciale con l’obbligo di soggiorno a Barcellona, Cattafi riesce a sfuggire a ogni conseguenza dalle accuse rivoltegli da innumerevoli collaboratori di giustizia che lo dipingono come esponente di vertice della famiglia barcellonese di Cosa Nostra, referente diretto dei capiclan di Catania e Palermo, reso forte dalle sue relazioni privilegiate con apparati istituzionali.

La sua impunità finisce il 24 luglio 2012, quando viene raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Gip di Messina su richiesta della Direzione distrettuale antimafia diretta da Guido Lo Forte. Da quel momento tenta uno strano minuetto con i pubblici ministeri di Messina e di Palermo, dicendosi depositario di scottanti conoscenze sulla trattativa Stato-mafia, pretendendo di convincere i magistrati non solo delle peculiari stravaganze dei fatti raccontati (la trattativa en plen air, di cui si è detto, tra l’altro) ma pure della sua assoluta estraneità agli interessi mafiosi, dipingendosi come un uomo fedele allo Stato. In effetti, forse un senso ce l’ha: occorrerebbe capire a quale Stato.

Il 9 dicembre 2013 il processo nel quale è imputato, denominato Gotha 3, è pronto per la sentenza. Ma, proprio quando il Gup sta per ritirarsi in camera di consiglio e decidere, Cattafi chiede dalla videoconferenza (ora è al 41 bis a L’Aquila) al giudice se sia arrivata a destinazione l’ennesima sua memoria difensiva, depositata all’ufficio matricola del carcere quattro giorni prima. In cancelleria di quella memoria non si è mai avuta traccia: il Tribunale riceve dal carcere di L’Aquila una comunicazione secondo cui, fuori da ogni previsione, la memoria di Cattafi è stata trasmessa per posta ordinaria e senza prima farne copia, cosicché la sua spedizione non è in alcun modo verificabile né è possibile reperirne una copia. Al Tribunale non rimane altro che rinviare, confidando nelle Poste italiane. Ma alla successiva udienza, il 16 dicembre, della memoria di Cattafi al Tribunale di Messina non c’è nemmeno l’ombra. Non avendo altra possibilità, salvo sospendere sine die il processo (e così scarcerare Cattafi per decorrenza termini), il Gup concede all’imputato di rendere ulteriori dichiarazioni spontanee e si ritira in camera di consiglio. All’uscita, legge un dispositivo di condanna a 12 anni di reclusione per Cattafi, individuato come esponente di vertice di Cosa Nostra barcellonese dagli anni Settanta al 2012.

La disfunzione del Dap, ça va sans dire, porta acqua al mulino di Cattafi. Non solo il ritardo imposto al Tribunale per il pronunciamento della sentenza di primo grado; c’è di più. Infatti, il primo motivo degli atti d’appello proposti dai suoi difensori, guarda caso, è proprio l’omessa trasmissione al Tribunale della memoria difensiva di Cattafi. La quale, in effetti, molto tardivamente, raggiunge infine il Tribunale di Messina, dopo un curioso gioco dell’oca. Depositata, come detto, il 5 dicembre 2013 presso la matricola del carcere, arriva a Messina il 31 gennaio 2014: tempi che nemmeno nella Siberia dell’Ottocento! La spiegazione, al di là di ogni immaginazione, è fornita dalla lettera di accompagnamento del direttore del carcere di L’Aquila, il sapore burocratico delle parole del quale non attutisce lo sconcerto nel leggerle: “ad ogni buon fine si precisa che quanto si trasmette era stato collocato, per mero errore, nella busta della posta indirizzata alla Direzione Generale dei Detenuti e del Trattamento del DAP, e che in data 16.01.2013 (in realtà 2014, n.d.a.) con la nota n. 0428048 – 2013 (sic!), anch’essa allegata, ha ritrasmesso a questa Direzione”. La memoria difensiva di Cattafi, come per uno scherzo del destino, trasmessa, anziché al Tribunale, all’ufficio detenuti del Dap, un tempo guidato dal suo amico Filippo Bucalo.

Non si ha notizia di determinazioni assunte dall’ufficio detenuti del Dap, da qualche anno diretto da un altro magistrato della provincia di Messina, un tempo in servizio alla Procura di Palermo, il dr. Roberto Piscitello. La sua voce (così come le parole di alcuni suoi sms) è rimasta spiacevolmente impigliata in un’intercettazione disposta dalla Procura di Patti nel corso di un’indagine sull’amministrazione comunale di S. Agata di Militello guidata dall’allora sindaco (e ora senatore del Ncd di Angelino Alfano) Bruno Mancuso, fratello del finanziere. In quell’occasione il sindaco Mancuso si era interessato per il trasferimento di un pregiudicato di S. Agata di Militello, su sollecitazione della compagna del detenuto. E per questo aveva pensato di rivolgersi al suo concittadino in servizio al vertice dell’ufficio detenuti del Dap. Ciò di cui ora, invece, Piscitello si starà ragionevolmente occupando è capire da cosa sia nato lo svarione del carcere di L’Aquila, con il quale si tenta adesso di minare la condanna di Cattafi per ottenerne l’annullamento. In quella memoria Cattafi ripeteva per l’ennesima volta argomentazioni già proposte da lui e dai suoi difensori fin dall’interrogatorio di garanzia. Tutte argomentazioni motivatamente disattese dal Gup nella sua sentenza. Per la difesa di Cattafi, quella memoria valeva niente. Si tenta oggi di darle valore, nel giudizio d’appello, solo grazie alla “sbadataggine” di qualcuno al carcere di L’Aquila.
Sembra il destino di Cattafi, un Dap per amico.

Fabio Repici (da: IlGuastatore.it)

Tratto da:
19luglio1992.com

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