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riina-bn-big-poliziadi Sara Donatelli - 10 settembre 2014
Nonostante tutti i distrattori sociali che ci vengono ogni giorno serviti su un piatto d'argento da una presunta stampa che continua a parlare di presunta trattativa e da un sistema costruito ad arte per anestetizzare le nostre menti, coscienze, capacità critiche e reattive, bisogna mantenere i riflettori accesi su quello che è successo e succede a Palermo, analizzare non solo le dinamiche interne al tristemente famoso palazzo dei veleni, ma anche le modalità con le quali si alternano i corvi che continuano a volare su quella struttura, cambiando volto ma mai sostanza, cambiando rotta ma mai intenti. Prendiamo in esame ad esempio le minacce arrivate al PM Antonino Di Matteo, alle loro tempistiche, ai loro legami. Perfetta sintonia tra elementi mafiosi ed elementi istituzionali per il raggiungimento di uno stesso obiettivo: spaventare, intimorire, avvertire Nino Di Matteo.

Roba vecchia dirà qualcuno. Acqua passata, penserà qualcun altro. Ma niente è casuale, nemmeno l'alternarsi di minacce di impronta mafiosa e di fonte istituzionale, inizialmente considerate dallo stesso procuratore come casuali ma in seguito riconosciute come tasselli di un puzzle complesso ed intricato da comprendere. Bisogna innanzitutto convincersi, comprendere ed accettare il fatto che le parole di Riina dal carcere non sono delle minacce ma veri e propri ordini di morte. “Sono un audio papello aggiornato, parla sapendo di essere intercettato e dal carcere il capo di Cosa Nostra continua a mandare messaggi ambigui a pezzi della politica, di altri apparati, ma soprattutto ai protagonisti della trattativa. È evidente che parla da capo di Cosa Nostra che ha una strategia, un disegno per ricucire alleanze, ricostruire equilibri e tentare di rifondare l’organizzazione" sostiene Ingroia.  Poniamoci delle domande. Manteniamo vivo il nostro senso critico e analitico. Proviamo a chiederci, ad esempio, perché un boss al 41 bis, pluriergastolano, se la prenda tanto con un magistrato che sta seguendo un processo che lo vede coinvolto sicuramente in maniera meno grave rispetto a tutti gli altri procedimenti ai quali lo stesso Riina é stato precedentemente coinvolto e sottoposto. E, oltre a porci delle domande, facciamo anche quel salto. Diamoci delle risposte. Non aspettiamo che queste cadano dal cielo, non permettiamo a nessuno di imboccarci, di "imporci democraticamente" versioni di comodo. Sicuramente il lupo perde il pelo ma non il vizio. Senza ombra di dubbio. Ma qualcuno ha mai preso in considerazione la possibilità che il serpente stia cambiando pelle per mimetizzarsi ed adeguarsi all'ambiente circostante? Facciamoci delle domande. Noi. E diamoci delle risposte. Noi. Come detto prima siamo di fronte ad una ben architettata strategia: confondere i confini tra Stato e antistato. Oltre alle minacce di Totò u curtu, la quasi totalità dei mezzi di informazione ha (volutamente) dimenticato (omesso) il dossier di 12 cartelle intitolato “Protocollo Fantasma”, con lo stemma della Repubblica Italiana, che  metteva il Procuratore in guardia dallo spionaggio di “uomini delle istituzioni” verso una “centrale romana”, avvertendolo che si stava inoltrando su terreni pericolosi, citando politici della Prima Repubblica coinvolti nella trattativa non ancora toccati dalle indagini. Questo è però il primo messaggio di fonte istituzionale. Ne arriva infatti un secondo, guarda caso successivo alle elezioni di febbraio. E' il 26 marzo: arriva a Nino Di Matteo una lettera  scritta al computer da un anonimo sedicente “uomo d’onore della famiglia trapanese” che annuncia la sua eliminazione – in alternativa a quella di Massimo Ciancimino – perché l’Italia “non può finire governato da comici e froci” (riferimento a Crocetta e Grillo). Il tutto perfettamente contornato da un'inquietante, quanto già sperimentata in passato da altri, indifferenza istituzionale. "Lo Stato è uno solo: quello disegnato con chiarezza e precisione dalla Costituzione. Per essere credibile e riconosciuto come tale, lo Stato non deve temere di processare se stesso, attraverso propri esponenti infedeli, collusi, deviati. Altrimenti non ha titolo neppure per processare la criminalità, organizzata e non", queste le parole del PM Antonino Di Matteo. Una ben architettata strategia, dicevamo prima. Ecco, in questa strategia bisogna includere, oltre che le intimidazioni, tutta una serie di azioni miranti la delegittimazione, l'umiliazione, passando per l'isolamento, per arrivare all'annientamento finale, che non sempre culmina con un'esplosione o con del tritolo. Spesso si concretizza con l'abbandono, con i passi indietro da parte di chi coraggiosamente aveva intrapreso un percorso verso il raggiungimento e il riconoscimento della piena verità ma che poi, per paura, si tira indietro. Perché non si sente adeguatamente protetto. Ma non é questo il caso di Di Matteo, che si è trovato davanti uno Stato che per proteggerlo decide di mettere sul piatto di una bilancia due pesi: credibilità e sicurezza personale. Facciamo riferimento all'episodio in cui il Comitato per l’Ordine e la Sicurezza propose a Di Matteo di girare per Palermo a bordo di un carrarmato Lince. "Inizialmente non sapevo neppure cosa fosse. Ho visto la foto in Internet di un Lince usato nella guerra in Afghanistan e ho detto di no. Oltreché impensabile dal punto di vista pratico e logistico, un magistrato che deve circolare a bordo di un carrarmato diventa anche ridicolo. E se c’è una cosa che non posso accettare è che il mio lavoro venga messo in condizione di perdere il rispetto. La sicurezza non può diventare un pretesto per i tanti che guardano con ostilità al nostro impegno per metterci alla berlina. Tutti gli altri rischi li accetto: questo no". Esempio di schiena dritta in un paese di sottomessi. Come lo è il suo caposcorta, il Maresciallo Saverio Masi. Arrivato da Napoli al Reparto Investigativo di Palermo nel 2001 e dopo pochi mesi di attività rintraccia Provenzano prima e Messina Denaro poi. Colpo grosso. Se non fosse che i suoi superiori (da lui successivamente denunciati) lo bloccano. Gli stessi superiori che condurranno il Maresciallo in un'aula di Tribunale a doversi difendere da  ben tre capi d'accusa: falso materiale, falso ideologico e tentata truffa per una multa presa durante un'operazione. Ed il trenta ottobre arriverà la sentenza. Una sentenza che stabilirà se Masi dovrà o meno essere destituito dall'arma dei Cc, una sentenza che sicuramente non cambierà  il valore dei personaggi coinvolti, né la loro coscienza. Quella te la ritrovi ogni mattina davanti lo specchio. Quella la vedrai riflessa negli occhi dei tuoi figli quando ti chiederanno il significato della parola "dignità". E allora bisogna gridare e scendere nelle piazze, sfoderando la nostra indignazione perché è drammaticamente assurdo che Nino Di Matteo e la sua scorta non siano ancora stati dotati del dispositivo del bomb-jammer. Diciamolo che Saverio Masi, Salvatore Fiducia (altro carabiniere che ha denunciato i suoi superiori) e il loro avvocato Giorgio Carta (insieme ad otto giornalisti) dovranno subire l'ennesima mortificazione il 15 ottobre a Roma, dove si deciderà sulle richieste di rinvio a giudizio per diffamazione in seguito alle denunce presentate dal colonnello Gianmarco Sottili e dagli ufficiali Fabio Ottaviani, Michele Miulli e Stefano Sancricca. Diciamolo che contro Massimo Ciancimino, testimone chiave del processo sulla trattativa, è stata costruita e messa in moto la più grande (e spudorata) macchina del fango di sempre. Diciamolo che Attilio Manca non si è suicidato, ma è stato ucciso perché entró in contatto con Provenzano a Marsiglia, per operare (o comunque curare) il boss colpito da un tumore alla prostata. Diciamolo che Augusta e Vincenzo Agostino aspettano una risposta sulla morte del figlio, della nuora e del nipote da 25 anni. Diciamole queste cose. Parliamone, facciamoci delle domande, diamoci delle risposte, uniamo i tasselli, e tutto sarà dannatamente chiaro.

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