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gulotta-giusdi Franca Selvatici - 25 giugno 2015

Tra Sicilia e Toscana una storia di feroce ingiustizia con quattro uomini condannati per una strage mai commessa. Dalle battaglie giudiziarie è nato "Progetto innocenti", un'organizzazione per la tutela dei diritti umani.

Nell'arco di 30 anni, fra Sicilia e Toscana si è consumata una storia di feroce ingiustizia. Se fosse accaduta in America, non ci sarebbe stato modo di trovare un sia pur tardivo rimedio, come invece è accaduto dopo lunghe battaglie giudiziarie, dalle quali è nato "Progetto Innocenti", una organizzazione per la tutela dei diritti umani creata dall'avvocato toscano Pardo Cellini e dal siciliano Baldassare Lauria, i difensori dei quattro uomini condannati per una strage che non avevano commesso.

La strage

In America Giuseppe Gulotta sarebbe stato giustiziato. E sarebbe stato certamente giustiziato anche Giovanni Mandalà, il bottaio di Partinico, e forse anche gli altri due presunti complici, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli,  sebbene fossero minorenni. Erano accusati di aver ucciso due giovanissimi carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, sorprendendoli nel sonno nella piccola caserma di Alcamo Marina il 26 gennaio 1976. Un delitto orrendo. 

Gli arresti

Giuseppe Gulotta aveva appena 18 anni, faceva il muratore, aveva fatto domanda per entrare nella Guardia di Finanza. Il 13 febbraio 1976 viene prelevato dai carabinieri, portato in caserma, legato mani e piedi a una sedia, picchiato, minacciato di morte con una pistola che gli graffia le guance. Un "branco di lupi" lo circonda. Botte, insulti, i testicoli strizzati. Così per dieci ore finché "sporco di sangue, lacrime, bava, pipì" si rassegna a confessare quello che gli urlano i carabinieri, pur di porre fine a quell'incubo. Ma è una illusione. La sua vita precipita in una voragine. Niente pena di morte, che per fortuna in Italia non esiste, ma una condanna a vita. Ergastolo. Identico il destino giudiziario dei suoi "complici".

I processi di revisione

Solo dopo 36 anni di tormenti, con quell'accusa orrenda sulla testa, Gulotta è riuscito a dimostrare la sua totale innocenza nel processo di revisione che si è celebrato a Reggio Calabria e si è concluso con la sua assoluzione con formula piena il 13 febbraio 2012, esattamente 36 anni dopo il giorno del suo arresto. Il 20 luglio successivo si è chiuso con l'assoluzione anche il processo di revisione per Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli, fuggiti in Brasile prima della sentenza definitiva e rimasti 22 anni lontani dall'Italia. E infine  -  evento straordinario, forse unico nella storia giudiziaria italiana  -  è stato celebrato il processo di revisione anche nei confronti di Giovanni Mandalà, morto in cella, disperato, nel 1998. E anche questo processo si è chiuso con la assoluzione piena e la riabilitazione del condannato. Solo nei quattro processi di revisione la verità, a lungo disperatamente gridata ma fino ad allora respinta da giudici distratti o negligenti, è emersa con chiarezza. 

La peste

L'inchiesta sulla strage di Alcamo Marina era stata inquinata dalla peste. Le confessioni erano state strappate con la tortura. Questo rende la drammatica vicenda di Giuseppe Gulotta e dei suoi "complici" di assoluta attualità. E' la prova, se ce ne fosse bisogno, che la tortura non è soltanto uno sfregio allo Stato di diritto, ma anche un "metodo" di indagine che produce errori giudiziari e frodi processuali, senza rendere giustizia alle vittime dei reati. Otto anni dopo la strage di Alcamo Marina, il 10 dicembre 1984, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Convenzione contro la tortura, entrata in vigore il 26 giugno 1987: la Convenzione richiede agli Stati membri di introdurre il crimine di tortura nelle proprie legislazioni nazionali. A 27 anni di distanza, l'Italia non lo ha ancora fatto. 

Il tritacarne di Stato

La storia di Giuseppe Gulotta e degli altri tre innocenti finiti come lui nel "tritacarne di Stato" riguarda tutti perché quello che è accaduto a lui potrebbe accadere ancora oggi a ognuno di noi e perché è un atto di accusa contro la intollerabile inadempienza dello Stato italiano. E' una storia di misteri siciliani e anche una storia toscana. Giuseppe Gulotta viene scarcerato per decorrenza termini il 19 maggio '78 ma in attesa del processo non può tornare ad Alcamo, né può vivere in Sicilia. I genitori gli trovano una sistemazione da un parente in Toscana. Ed è lì che Giuseppe torna a fare il muratore e attende il suo destino giudiziario, che sarà scandito da ben nove processi. Dopo una assoluzione in primo grado "per insufficienza di prove", arriveranno condanne in appello e annullamenti in Cassazione, fino alla sentenza definitiva di condanna all'ergastolo pronunciata il 19 settembre 1990. Nel frattempo a Certaldo Giuseppe ha incontrato una compagna amatissima, Michela, già madre di tre bambini che in lui hanno trovato un secondo padre, e con Michela ha un figlio, William, nato il 5 maggio 1988. Lo arrestano il 27 novembre 1990 i carabinieri di Certaldo. Hanno gli occhi rossi di pianto, non credono che Giuseppe sia l'assassino dei loro colleghi di Alcamo Marina. Piangono quando sono costretti a strappargli dal collo il piccolo William e a portarlo via. Gulotta finisce a Sollicciano: "il carcere più buio e tetro che abbia mai visto", ricorda in "Alkamar  -  La mia vita in carcere da innocente", il libro scritto con il giornalista Nicola Biondo, edito da Chiarelettere. All'inizio del '91 viene trasferito nel carcere di San Gimignano. E' un detenuto modello, nel '95 lo ammettono al lavoro esterno, nel 2005 ottiene la semilibertà. Ma resta il "mostro" che a 18 anni ha ucciso due giovani carabinieri.

Il miracolo

Poi nel 2007 avviene una specie di miracolo. In Tv Carlo Lucarelli parla della strage dimenticata di Alcamo Marina. Dice che tutti gli imputati sono stati assolti. Sbaglia clamorosamente ma risveglia la memoria di un telespettatore  che, firmandosi Seddik 74, scrive al sito della trasmissione: "Se qualcuno vuole sapere la verità sulla strage, io so tutto". Mentre Giuseppe si affida a un giovane avvocato toscano, Pardo Cellini, Seddik 74 si rivela. E' un ex carabiniere, Renato Olino. Ha lasciato l'Arma a fine '76, dopo aver assistito alle torture che hanno innescato la terrificante catena di errori giudiziari. 

La confessione estorta

Tutto ha inizio la notte del 12 febbraio 1976, due settimane dopo la strage. Ad Alcamo i carabinieri fermano un'auto. A bordo c'è un ragazzo di 22 anni, Giuseppe Vesco. Ha perso la mano sinistra maneggiando un ordigno. In auto ha una pistola calibro 7,65, lo stesso dell'arma che ha ucciso i carabinieri. Scatta una perquisizione, nel corso della quale Vesco consegna un'altra pistola, una Beretta calibro 9, uguale a quelle in dotazione dei carabinieri. Probabilmente Vesco è implicato in qualche modo nella strage. Ma per farlo confessare una squadra di carabinieri guidata dal colonnello Giuseppe Russo (che l'anno successivo sarà ucciso dalla mafia) usa metodi terrificanti, come racconterà a' 31 anni più tardi Renato Olino. Il giovane viene condotto in una sperduta caserma di campagna, a Sirignano, legato braccia e piedi a due bauli militari sovrapposti, costretto a bere acqua salata mescolata a olio di ricino, torturato con l'applicazione di cavi elettrici ai testicoli. Un medico controlla che il ragazzo non collassi. Vesco cede. Indica un garage di Partinico dove sono nascoste armi e indumenti trafugati dalla caserma di Alcamo Marina. Le torture proseguono finché non fa i nomi dei suoi "complici", il giovanissimo cugino Vincenzo Ferrantelli, i suoi amici Gaetano Santangelo e Giuseppe Gulotta, il bottaio di Partinico Giovanni Mandalà, proprietario del garage che era stato affittato a Ferrantelli. Il giorno successivo, sottoposti a violenze e pestaggi, Ferrantelli, Santangelo e Gulotta confessano sotto dettatura. Erano come pulcini bagnati, racconterà più di 30 anni dopo l'ex carabiniere Olino. Mandalà non confesserà né allora né mai. Lo incastrano con una giacca macchiata di sangue: il gruppo sanguigno è molto raro e corrisponde a quello di una delle vittime.

La frode processuale

Solo più di 30 anni più tardi, quando Mandalà è già morto, gli avvocati Lauria e Cellini scopriranno, rileggendo con cura certosina le carte del processo, che i carabinieri possedevano campioni di sangue dei loro colleghi uccisi, e quindi ben potevano aver incastrato Mandalà. Impossibile fare una verifica, perché la giacca era stata distrutta nel '97. Scrive l'avvocato Cellini: "Nei tanti processi che si sono succeduti fino alle condanne definitive dei quattro innocenti, gli inquirenti hanno giocato la partita con carte truccate". Eppure  già pochi giorni dopo l'arresto sarebbe stato possibile capire che l'indagine  era stata inquinata dalle violenze. Sia Vesco che gli altri raccontarono di essere stati sottoposti a sevizie. Dal carcere di San Giuliano di Trapani Vesco descrisse dettagliatamente le torture in alcune lettere. Ma il 26 ottobre del '77 lo trovarono impiccato nel bagno dell'infermeria, appeso a una grata della finestra, a oltre due metri di altezza. Come avesse potuto suicidarsi in quel modo, con una sola mano, non è mai stato chiarito. Più di 30 anni dopo il pentito di mafia Vincenzo Calcara, che lo aveva conosciuto nel carcere di Trapani, ha dichiarato che il ragazzo era stato costretto ad accusare degli innocenti e che fu ucciso da un mafioso e da due guardie perché il segreto non potesse più trapelare.

I pentiti di mafia 

Giuseppe Ferro, già capofamiglia di Alcamo e imputato anche per le stragi di Roma, Firenze e Milano del '93, ha raccontato: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... erano solamente delle vittime... pensavamo che la strage era opera di servizi deviati e mafia". Leonardo Messina, altro mafioso pentito, che sostiene di aver preso parte al tentato golpe Borghese e di essere stato pronto ad assaltare le caserme a Firenze, ha dichiarato che la mafia ha tentato più volte di farsi Stato e cioè di fare un colpo di Stato, e che anche l'assalto alla caserma di Alcamo Marina rientrava in un progetto destabilizzante al quale non erano estranei pezzi di Stato. Se questo è vero, hanno ancora più senso le parole di Gulotta: "Ho voluto scrivere la mia storia come si affronta una terapia. Giuseppe è scomparso dentro un tritacarne di Stato".

Progetto Innocenti

Per i 36 anni di vita perduti, dalla sua Certaldo Giuseppe Gulotta chiede ora allo Stato un risarcimento di 69 milioni di euro. Pochi giorni fa la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della Avvocatura dello Stato, riconoscendo il pieno diritto di Gulotta all'indennizzo per la sua vita spezzata. Scrive l'avvocato Cellini: "Siamo stati 'Pubblici Ministerì alla ricerca della verità, io e il collega Baldassare Lauria, abbiamo fatto dell'investigazione difensiva l'architrave della revisione nel caso Gulotta, umili alla ricerca della prova, siamo stati veri collaboratori di giustizia nel senso più nobile del termine, abbiamo fornito alle varie Corti un compendio probatorio che scagiona senza dubbio alcuno tutti e quattro i giovani ingiustamente condannati".

Resta il senso di amarezza per la scarsa attenzione che questa vicenda ha ricevuto dai mezzi di informazione: "A mio parere  -  scrive l'avvocato  -  questo  è stato un processo importantissimo per la Giustizia d'Italia e mi turba il fatto che tutto sia passato sotto silenzio. Siamo tutti così abituati all'ingiustizia?"

E' possibile. Non per i due giovani avvocati, che da questa esperienza hanno preso l'impegno di lavorare per risolvere altri misteri e aiutare altri infelici ingiustamente condannati. "Noi siamo giuristi e siamo certi di aver fatto un ottimo lavoro, il nostro impegno continuerà con un progetto comune: Progetto Innocenti, perché il diritto sia anche speranza di giustizia".

Tratto dafirenze.repubblica.it

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