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piazza-della-loggia-bresciadi Stefania Limiti - 18 febbraio 2014
"Capimmo subito la pista veronese ma arrivammo a scoprire fin dove ci fu consentito".
Soddisfatto per la definitiva assoluzione sancita dalla Corte d’appello di Brescia nell’aprile del 2012, Francesco Delfino, capitano del nucleo investigativo dei carabinieri della città lombarda negli anni della strage di Piazza della Loggia, ha accettato recentemente un breve incontro. Può guardare dunque con più serenità le vicende bresciane: il suo principale accusatore, Maurizio Tramonte, la fonte "Tritone", ha ritrattato tutto, proprio come fece anni fa l’altro pentito nero Martino Siciliano, pressato dalle telefonate di Delfo Zorzi.

Lo vado a trovare nella residenza dove cura i suoi malanni e mi riceve nella sua piccola stanzetta, occupata da oggetti essenziali e dalla grande bombola di ossigeno che deve stare sempre a portata di mano. Delfino ha già avuto modo di dire che crede tutt’oggi alla validità della pista Buzzi (Ermanno Buzzi fu giudicato responsabile dell’eccidio di Piazza della Loggia ma nell’aprile del 1981, poco prima di sue nuove testimonianze nel processo per la strage - l’udienza era già fissata per il 5 ottobre - fu ammazzato barbaramente nel supercarcere di Novara da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli) tuttavia resta una forte curiosità: come ha fatto a sapere, così tanto tempo prima che nuove piste investigative ne portassero alla luce i particolari - solo in parte oggi già noti - che nella strage di Piazza della Loggia c’era stato lo zampino anche della destra veronese?

Delfino, infatti, quando si presentò in parlamento a rispondere alle domande del presidente della Commissione Stragi, Giovanni Pellegrino - un'audizione molto nervosa, durante la quale aleggiava la presenza del nemico storico del generale, l’allora procuratore di Brescia Giovanni Arcai - disse cose importanti che avrebbe però avuto un seguito investigativo solo negli anni successivi.

Occorre brevemente ricordare - per comprendere i passaggi della testimonianza di Delfino, che riportiamo di seguito - che gli organizzatori della strage avevano già precostituito il ‘mostro’ cui attribuire la responsabilità della mattanza - come è dettagliatamente ricostruito nel libro Doppio livello: proprio come fu per Piazza Fontana, anche a Brescia le menti raffinatissime che avevano programmato il colpo avevano messo in conto di incastrare la sinistra. La strage avrebbe dovuto creare il terrore - spiegò Carlo Maria Maggi, il leader di Ordine nuovo del Triveneto ai suoi camerati - e avrebbe dovuto colpire i carabinieri perché doveva ricadere tutta sulla testa dei rossi. Solo che la pioggia quel giorno cambiò tutto. Sappiamo ormai come andò. I carabinieri si spostarono dal punto in cui erano soliti mettersi, arretrarono nel cortile interno della prefettura per fare posto ai manifestanti che cercavano rifugio sotto i portici, e la bomba nascosta in un cestino portarifiuti colpì questi ultimi, ammazzandone otto e ferendone oltre cento. A quel punto lo schema delle ‘false bandiere’ non poteva reggere, sarebbe stato ridicolo tentare di far credere che la sinistra ammazzava i suoi stessi figli. 

« Pur senza avere elementi e dati precisi - disse Delfino in parlamento - sono arrivato al punto di ipotizzare che Buzzi e il gruppo bresciano abbiano voluto fare lo scherzo ai sindacati senza accorgersi - alcuni - che l'altro gruppo (quello politicizzato eversivo, milanese e molto probabilmente veneto-veronese) invece sapeva cosa si andava a fare. Questo perché c'è stato un momento dell'indagine in cui era apparso da qualche cosa che l'errore del collegamento della bomba su un pilastro con il cestino attaccato non era a conoscenza di quei quattro - Buzzi forse compreso - per i danni che avrebbe potuto procurare, ma che il gruppo politicizzato sapeva. Ricordiamoci anche che ci sono le due missive che purtroppo arrivano a conoscenza a strage avvenuta; sono due missive scritte con una macchina che abbiamo recuperato, che certamente annunciano la strage: è quello che arriva al Giornale di Brescia. Allora faccio la considerazione che a Brescia e nell'area bresciana era in atto il preparativo di qualcosa di grosso e viene colta l'occasione della riunione improvvisa e a breve scadenza concordata dai sindacati. Quindi, non escludo che ci siano state due diverse configurazioni nell'attentato, quella di chi voleva lo scherzo ai rossi, come scrivevano sul muri, e quella di chi invece, sapendo che veniva fatto lo scherzo, ha voluto la strage ». 

Le parole di Delfino, alla luce delle recenti novità investigative (che riguardano proprio il ruolo di alcuni esponenti neofascisti veronesi nella strage del ‘74), sono assai importanti.

Generale, scusi, ma come faceva a sapere di questa duplice mano?
“In realtà ce lo disse lo stesso Buzzi”.

Cioè, cosa vi disse?
“Buzzi ci parlò dei veneti, ci fece dei nomi, naturalmente falsi, nomi di battaglia. Noi cercammo di capire a chi appartenessero ma non riuscimmo a scoprire nulla, non riuscimmo a individuare le persone che Buzzi ci stava indicando”.

Ma può essere legata a queste sue conoscenze la sua terribile morte?
“Sì, assolutamente sì.” – risponde l’ex generale dei Carabinieri che ricorda bene il gran via vai di veronesi che c’era a Brescia in quel periodo. “Ai funerali di Silvio Ferrari (lo studente dell’organizzazione nera Anno Zero che saltò in aria sulla sua motoretta il 18 maggio del ’74, dieci giorni prima della strage, mentre trasportava esplosivo in un pacco che teneva tra le gambe, Nda) c’erano i veronesi a dettar legge. Il gruppo di neofascisti bresciani aveva capacità operativa di medio livello, il centro direttivo, invece, era a Verona”.

Come le fu possibile capire immediatamente che l’attentato era diretto contro i Carabinieri e non contro i manifestanti (cioè che lo schema non era quello solito dell’attacco dei neri contro i rossi)?
“E’ molto semplice, conoscevo la piazza e la usuale dislocazione delle forze dell’ordine”, risponde Delfino senza girarci troppo intorno. 

Parlare del gruppo veronese di Ordine nuovo, guidato da figure di primissimo piano come Elio Massagrande, l’ufficiale paracadutista che girava con la Dyane 6 celestina, Roberto Besutti, l’addestratore di giovani militanti di On per le grandi prove che la vita di soldati politici gli avrebbe imposto, o Claudio Bizzari, brillante organizzatore di iniziative politiche, non è un dettaglio di una grande, sconfinata e mai conclusa inchiesta. Oggi è noto che la città veneta è stata anche il luogo prescelto dai teorici della Scuola del gruppo di Ordine nuovo, il think tank nero, dove far nascere sette esoteriche che attiravano giovani manovali del terrore.

A Verona c’era tutto l’armamentario della guerra non convenzionale e c’era una fitta rete di agenti atlantici che tirava i fili per far muovere tanti burattini. Uno scenario che rende ancor più fragile la figura del piccolo ladro di opere d’arte qual era Buzzi, del resto a suo tempo identificato solo come uno degli esecutori materiali - un giudizio che già allora, nonostante l’enfasi dei giudici Vino e Trovato, non risolveva il problema degli altri complici e degli ispiratori. Un giudizio che assunse la forma di una tenaglia, sostenuto dalle accuse del suo amico intimissimo Angelino Papa, diciottenne, e dalla testimonianza fondamentale di Ugo Bonati, poi scomparso nel nulla - al coro si unì anche Quex, il giornale della destra ‘parastatale’, per usare una formula cara a Vincenzo Vinciguerra. Un grande cronista come Giulio Obici paragonò Buzzi al finto anarchico Bertoli e notò che a quest’ultimo era stata opportunamente tatuata sulla pelle una A dell’anarchia come a Buzzi il simbolo nazista delle SS che però, scrisse Obici (Paese sera 19 maggio 1975) fu “improvvisamente corretto con una falce e martello il giorno dopo la strage…”(Obici era un cronista esperto e informato, come conferma l’azzeccato paragone, ma questo particolare non è poi mai stato confermato, si può ipotizzare che glielo riferì qualche informatore che sosteneva la ‘pista Buzzi’)

Ancora oggi, nella stanzetta del residence dove gentili infermiere si prendono cura di lui, Francesco Delfino non ha dubbi: “Anche il gruppo veronese non rispondeva solo a se stesso. Era manovrato dagli agenti atlantici. Esisteva una rete molto vasta di personaggi che facevano capo alle basi militari. Uno dei capi più attivi era un americano che ha abitato per un certo periodo con la moglie a Verona, ma non ho mai saputo il suo nome”.

Generale, lei sta facendo riferimento ad una sovrastruttura straniera?
“Sto parlando di un potere non italiano che ha determinato il caos nel nostro paese. Noi abbiamo scoperto quello che ci è stato consentito di scoprire”, chiosa Delfino. 

Non aggiunge altro. Va solo ricordato che un brandello di verità giudiziaria per la strage di Piazza della Loggia esiste e porta lontano. I giudici della Corte d'assise d'appello di Brescia, infatti, che il 14 aprile del 2012, oltre alle assoluzioni, hanno anche scritto con certezza che l'esplosivo per la strage venne consegnato da Carlo Digilio, l’artificiere di Ordine nuovo, a Marcello Soffiati, ristoratore di Colognola, fascista, amico di Spiazzi e Massagrande, soprattutto uomo della Rete atlantica. Resta ora da capire il contributo dei neofascisti veronesi e a chi davvero rispondessero delle loro imprese.

Tratto da: agoravox.it

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