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ministro-italianodi Pippo Giordano - 2 dicembre 2013
Mi rincresce scrivere questo post. Ma devo onorare un debito che ho verso Uomini che hanno dimostrato di aver posseduto un alto senso dello Stato. Uomini puri, Uomini privi di viltà cui la Storia ha già assegnato un posto nei cuori di milioni di italiani onesti. Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti gli uomini delle Istituzioni, vittime della violenza mafiosa, non sono stati eroi: sono stati soltanto Uomini che col sangue hanno tracciato il cammino dell'Italia onesta, dell'Italia dei padri di famiglia, dei giovani e delle donne. E la Storia è in attesa di assegnare altri giudizi, su altri uomini: uomini che non saranno ricordati per lo splendore delle proprie azioni. Anzi, la Storia li ricorderà per la codardia dimostrata e soprattutto per la palese omertà.

C'è stata una donna in questo bellissimo ma tanto martoriato Paese, che per oltre vent'anni ha atteso invano giustizia. Per oltre vent'anni, con umile silenzio ha atteso che l'interruttore della verità venisse azionato: ha chiesto in punta di piedi, senza far rumore, di poter entrare nella stanza della verità: le è stato negato l'accesso. Ora quella donna è spirata, non c'è più, ma è presente nel cuore di milioni di italiani. Mi riferisco ad Agnese Borsellino. Nello scrivere queste poche righe il mio pensiero va proprio a lei e se il contenuto turberà qualcuno non m'importa affatto. La forza di scrivere mi è data dalle tragedie che in prima persona ho vissuto. Parimenti, me la danno i giovani studenti che m'ascoltano e ai quali racconto l'ignominia di pezzi di questo Stato che, di fatto, ha la responsabilità almeno indiretta della morte violenta di poliziotti, carabinieri, magistrati e semplici cittadini, finanche innocenti bambini e donne. E noto che nella danza maestosa dell'ipocrisia, schiere di papposileni, privi della proverbiale saggezza, ma impavidi, usano la Giustizia modellandola per fini personali. La mia idiosincrasia verso siffatti personaggi sta assumendo contorni da brividi. E' tale il disgusto che talvolta faccio fatica a comprendere come taluni possano rappresentare quel “fresco profumo di libertà” tanto caro a Paolo Borsellino.
E' fuori da ogni legittimo dubbio che le trattative Stato-mafia siano sempre esistite. Sin da bambino notavo il “matrimonio perfetto” tra mafia, pezzi dello Stato e chiesa. Del resto, come era possibile che un mafioso arrestato con la pistola in tasca, dopo un paio d'ore, fosse di nuovo innanzi casa mia, libero? Ero ragazzino, allora non capii. Ma ora invece capisco benissimo: capisco che tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90, pezzi dello Stato si prostrarono ai piedi di Cosa nostra. Sono certo che parte dello Stato ha posto in essere il più grande depistaggio della Repubblica, quello sulla strage di via D'Amelio. E appare chiaro che le fibrillazioni tra l'ex ministro Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D'Ambrosio, suffragate da intercettazioni telefoniche, avessero come tema le indagini certosine della Procura di Palermo. Procura che aveva avviato investigazioni mirate sulla trattativa la cui esistenza è stata accertata dalla sentenza definitiva sulla strage di via dei Georgofili. In questa spasmodica ricerca di Mancino di interferire con il lavoro dei magistrati palermitani, ecco che s'inserisce il presidente Giorgio Napolitano, attraverso le note telefonate con l’ex ministro dell’Interno. Questi, per ben 4 volte, ha avuto colloqui telefonici con Napolitano.
La vicenda delle distruzione delle bobine con le telefonate intercettate tra Napolitano e Mancino, è abbastanza nota. Non è noto, invece, il contenuto delle telefonate. Ritengo plausibile che, proprio nelle quattro telefonate, vi fossero riferimenti agli atti istruttori condotti dai PM palermitani. In passato ho scritto che una volta riconosciuta la legittima facoltà del presidente di far distruggere le telefonate, le stesse conversazioni per amore di verità e giustizia, avrebbero dovuto essere rese note. Ciò non è avvenuto e ha ingenerato nell'opinione pubblica la convinzione che il presidente Napolitano volesse mantenere assolutamente riservato il contenuto di quei colloqui. Ora lo stesso Napolitano è stato convocato come teste al processo sulla trattativa e, tra una citazione di Legge e puntualizzazioni varie, si presenterà innanzi alla Corte di assise, premettendo che nulla sa in ordine ad una missiva scritta da D'Ambrosio, nel frattempo deceduto. In buona sostanza, Napolitano sostiene di non poter dare nessun contributo per fugare il dubbio che Loris D’Ambrosio ebbe di esser stato un "utile scriba" usato come scudo a "indicibili accordi", proprio in riferimento a fatti accaduti nel periodo tra l’anno 1989 e l’anno 1993. Questo dubbio è dunque destinato a rimanere aperto e la ‘scatola nera’ degli indicibili accordi sottesi alla trattativa Stato-mafia a rimanere sigillata.
Mi spiace davvero che un presidente della Repubblica, che dovrebbe rappresentare tutti gli italiani (soprattutto coloro che per il Paese hanno dato la propria vita), abbia preceduto i giudici nel dare un giudizio sull’utilità della sua testimonianza al processo di Palermo. Nel frattempo un ergastolano mafioso come Salvatore Riina ha affermato “Questi cornuti... (i pm di Palermo, ndr), se fossi fuori gli macinerei le ossa … sono stati capaci di portarsi pure Napolitano”. Orbene, nessuna parola è giunta in difesa di Nino Di Matteo e dei magistrati palermitani minacciati da Riina.
Io mi sento onorato di essere stato additato da due mafiosi al maxi-processo di Palermo con queste parole: “Stu cornuto 'n si vosi fari accattari”, invece che ricevere solidarietà da Totò Riina.

ANTIMAFIADuemila
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