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strage-georgofili-big0di Anna Dichiarante - 26 maggio 2013
Il generale Carlo Alberto dalla Chiesa diceva che, di solito, al funerale dell’assassinato, la prima corona di fiori ad arrivare è quella dell’assassino.
Così, in questi giorni di ricorrenze, il dubbio, che tra i primi ad accorrere alle commemorazioni ci siano anche coloro che avrebbero qualcosa da farsi perdonare, sorge forte e resta ineliminabile.
In effetti, dietro le facce tirate a lucido per presenziare alla celebrazione dell’anniversario della strage di Capaci, dietro ai discorsi ufficiali tenuti nel cassetto durante l’anno e poi rispolverati (come si fa con il vestito buono della festa) in occasione del 23 maggio, dietro la parata della memoria ostentata come fosse un dovere cui adempiere con regolarità per sentirsi a posto con la coscienza, ecco, dietro tutto ciò, sale quell’odore putrido dei fiori mandati tanto tempo fa dall’assassino e rimasti lì a marcire, senza che nessuno si sia mai curato di buttarli via. Finché non si rimuoveranno gli scheletri del passato, tuttavia, assassini nuovi o riciclati continueranno a portare fiori impollinati d’ipocrisia sui sepolcri della nostra storia, mettendo in scena all’infinito un copione che - basta uno sguardo fugace per accorgersene - è sempre uguale a se stesso.
In teoria, se si volesse tener vivo il ricordo di una persona, si dovrebbe aderire ai valori ed agli insegnamenti che da essa ci sono stati consegnati, si dovrebbe conoscere la lezione dettata dalla sua esperienza di vita e non si dovrebbero assolutamente ripetere errori già commessi; in pratica, dalle stragi del biennio 1992-1993, sembra che si sia imparato ben poco.

Abbiamo, forse, dimostrato d’aver compreso a fondo il senso di certe campagne di delegittimazione, compiute contro alcuni esponenti della Magistratura (quelli, non a caso, sovraesposti ed impegnati in procedimenti contro personaggi politici o in indagini sugli intrecci tra malaffare e potere)? A guardare ciò che è accaduto nelle scorse settimane ai danni di magistrati come - solo per citare gli esempi più vicini nel tempo - Antonino Di Matteo, Giuseppe Lombardo, Ilda Boccassini, non pare proprio.
Se davvero avessimo tratto qualche insegnamento dalla lunga e sistematica operazione, condotta contro Giovanni Falcone al fine di isolarlo, indebolirlo, delegittimarlo, renderlo impopolare e, di conseguenza, anche al fine di depotenziare l’efficacia del suo lavoro, allora si dovrebbe sentire un coro vigoroso di protesta ed allarme, levarsi di fronte alle odierne minacce di morte, alle intimidazioni sempre più vigliacche, ai vari stratagemmi per frenare la ricerca di verità e giustizia. Invece, dai piani alti, nulla, non una parola di condanna; anzi, spesso si getta sul fuoco la benzina dei procedimenti disciplinari, avviati contro i magistrati che abbiano osato provare a difendersi da sé, si tentano disperati e maldestri artifizi per salvare apparenze ormai in rapido dissolvimento o, ancora, si rilancia con la recente moda delle manifestazioni di piazza, che urlano verso i palazzi di giustizia una sfida indegna di una democrazia.
Eppure, la difesa dell’indipendenza della Magistratura e del suo agire libero da pressioni o ritorsioni dovrebbe essere una preoccupazione di ogni singolo cittadino della Repubblica, perché da queste prerogative dipendono la garanzia dei nostri diritti, la sicurezza collettiva, oltre che la corretta ed imparziale applicazione della legge.
Già, la legge; un altro dei punti cardine che la storia di vent’anni fa ci dovrebbe illuminare. I successi riportati dal pool antimafia di Palermo furono la dimostrazione di quanto si poteva - e si può ancor oggi - ottenere nel contrasto alla criminalità organizzata, tramite adeguati strumenti legislativi: non ci sono armi migliori della legge e della divulgazione di un’autentica cultura della legalità, a disposizione degli apparati dello Stato.
Falcone e i suoi colleghi, all’epoca, dovettero combattere aspramente e scontare ritardi inaccettabili per veder approvate le riforme da loro promosse, studiate e ritenute indispensabili per slegare il sistema penale italiano dai mille lacci che lo relegavano alla sconfitta contro le organizzazioni criminali. In egual modo, ora, si sta sprecando troppo tempo nell’apportare modifiche di vitale importanza alla normativa antimafia ed anticorruzione, nonostante - per nostra somma fortuna - non manchino personalità autorevoli, pronte a segnalarci il percorso migliore da seguire.
Oltre che agli indugi ed agli interventi colposamente o dolosamente improvvidi, con cadenza pressoché quotidiana, bisogna prestare attenzione pure ai tentativi di distruggere l’esistente o di innestare nell’ordinamento abomini sia di nuovo conio sia di vecchia data. Ed è rispettoso, nei confronti della fatica da tanti profusa nella lotta alle mafie, quello stillicidio di indecenti proposte che - puntuale come un esattore delle tasse - è subito ricominciato con il ritorno di alcuni personaggi politici ai posti di comando? Certo, alcune delle riforme ipotizzate e fatte strisciare sui tavoli delle commissioni parlamentari (talvolta, sfruttando la scarsa notorietà del proponente o l’accorpamento in provvedimenti eterogenei e confusi, in maniera che la norma passi inosservata e riesca, magari, ad eludere il vaglio dell’opinione pubblica) sono talmente paradossali da apparire ridicole: infatti, quando la marachella è troppo grossa ed il clamore che solleva diventa troppo ampio, la si ritira in fretta e furia, fingendo di rimproverare l’autore per aver partorito un’insana iniziativa “a titolo puramente personale”. C’è poco da ridere, però, perché - nel clima sempre teso ed infuocato della politica italiana, soprattutto, nell’estenuante dinamica del compromesso, delle larghe intese e del ricatto - il rischio che, nel mucchio, qualche proposta degenere riesca realmente a farla franca, non è poi così lontano. Ci riprovano con la riapertura dei termini del condono edilizio (si badi, un’idea rispuntata mentre Roberto Saviano ricorda che, dietro l’81% dei casi di scioglimento di amministrazioni locali per infiltrazioni mafiose, si celano, appunto, vicende di speculazione edilizia e mentre in Campania - regione profondamente toccata dalla piaga dell’abusivismo - vengono diffuse le stime sui danni che la criminalità provoca alla popolazione, vale a dire un ammanco di quasi 25 miliardi di euro all’anno); ci riprovano con i soliti ritocchi nefasti alla disciplina delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, ci riprovano persino con gli assalti a quel concorso esterno in associazione mafiosa che sembra destinato a non trovare mai pace…
Sono questi gli impegni che viene spontaneo prendere, nel versare lacrime sulle lapidi dei caduti di Capaci e di via Mariano D’Amelio?
D’altra parte, ulteriori esempi d’ipocrisia o d’incoerenza potrebbero aggiungersi all’elenco, ma, forse, la giornata di domani - il 27 maggio 2013 - sarà capace di riassumere bene l’intera morale della favola.
A Firenze, infatti, si celebrerà il ventesimo anniversario della strage di via dei Georgofili, con il ricordo delle sue cinque vittime innocenti; con la beffarda offesa arrecata ad un pezzo fondamentale del patrimonio artistico e culturale italiano; con il terribile messaggio che vi era sotteso, ossia che - ovunque, in qualunque momento e con i mezzi più devastanti - lo Stato poteva essere colpito e messo in ginocchio.
A Palermo, invece, si aprirà il processo sulla trattativa che vede imputati - tutti insieme - boss di Cosa Nostra e figure di spicco delle nostre istituzioni pubbliche.
Chissà che dall’esito di questo processo, come da quello di altri dibattimenti già in corso, non si possa capire, una volta per tutte, se la lezione dei martiri è stata assimilata oppure no.
Chissà che le metaforiche corone di fiori, spedite dagli assassini, non vengano finalmente rimosse.
Chissà che non vedano la luce quegli “stralci di verità” che la voce - piena di dignità ed autorevole, sino all’ultimo - di Agnese Borsellino ha chiesto ininterrottamente.
Chissà che le coscienze di alcuni non vengano animate, per la prima volta, almeno da un timido fremito.

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