«Se tu a me mi fai girare la minchia, io ti piglio e ti butto di sotto». «Vedi che io sono fuori di testa (…)». «(…) non ti permettere mai di dire a un collega che io ho dato soldi a mia madre perché io ti do legnate. (…)».
Se fossero avulse dalla cronaca degli ultimi giorni, queste asserzioni suonerebbero immediatamente come le minacce di un mafioso verso un cittadino inerme. E invece no. Le frasi sopra riportate provengono non da un affiliato alla mafia, ma da un politico: Carlo Auteri, vicecapogruppo di Fratelli d’Italia al parlamento siciliano. Vittima delle intimidazioni è Ismaele La Vardera, già inviato per le Iene e deputato regionale, che ha denunciato in assemblea un dirottamento di fondi pubblici verso un’associazione culturale riconducibile alla madre di Auteri.
Non si parla, quindi, di atti di estorsione o usura: ma di un argomento – quello della destinazione di fondi regionali ad associazioni culturali – discusso in un organo democratico. Anche il luogo dove è avvenuta la minaccia è diverso rispetto a quello che si potrebbe immaginare. Non un cascinale o un garage dove solitamente si riunivano i capi della cupola di Cosa Nostra, ma nel bagno di Palazzo dei Normanni, residenza di Federico II e considerato Patrimonio dell’umanità.
Come si può vedere, il tenore della minaccia, così vicina allo stile mafioso, stride con tutto il resto. Insomma: qui non si tratta di uno stragista irriducibile, ma di un politico, che, secondo la Costituzione, ha ricevuto un mandato di rappresentanza dal popolo.
Può esser mai possibile che un comportamento mafioso possa manifestarsi in un contesto non criminale?
«Per lungo tempo si sono confuse la mafia e la mentalità mafiosa – scriveva Giovanni Falcone –, la mafia come organizzazione illegale e la mafia come semplice modo di essere. Quale errore! Si può benissimo avere una mentalità mafiosa senza essere un criminale».
Considerare la mafia solo come un fatto giuridico è un errore assai pernicioso. Essa è sì un fenomeno giuridico, ma anche sociale e culturale; è una subcultura, che si riconosce in valori – come l’omertà, la violenza, la prevaricazione – che sono in una posizione antitetica rispetto a quelli accettati dalla nostra società. Si può affermare, senza remora alcuna, che il fenomeno mafioso ha delle connotazioni antropologiche. Quei «valori negativi» di cui la mafia si nutre sopiscono dentro ognuno di noi, perfino in uomini di governo ammantati da un’aurea di probità e rettitudine.
Studiando analiticamente i miti di diverse culture, Carl Jung individuò i vari archetipi che costituiscono la personalità umana: tra questi, vi erano Luce e Ombra, identificabili rispettivamente in Bene e Male. L’uomo, tuttavia, tende a sopprimere il suo lato scuro: e più lo spinge nel fondale del suo inconscio, più quello riemerge baldanzoso. Riemerge quando giriamo la testa dall’altra parte; quando siamo intolleranti verso chi ha usi e costumi diversi dai nostri; quando filmiamo un’aggressione, anziché intervenire per sedarla; quando vogliamo sfruttare le debolezze dell’altro per imporci. Questa è la mentalità mafiosa.
Una siffatta forma mentis mafiosa può essere eradicata solo riconoscendo che la mafia, sovente bollata come un «cancro» o una «piovra», ci rassomiglia.
Foto © Archivio Letizia Battaglia