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Il fenomeno del controllo mentale, spesso relegato alla sfera della cospirazione, nasconde radici profonde nella storia di progetti governativi reali. Tra questi, il “Monarch Project” - un controverso esperimento della CIA - ha lasciato un segno indelebile, anche se spesso taciuto, sulle vite di numerose vittime. Nel suo libro “Schegge Traumatiche: Kim Noble e le sue venti personalità”, la dott.ssa in Scienze e Tecniche Psicologiche Sofia Mezzasalma ci guida nei meandri di questo oscuro capitolo, analizzando anche i complessi legami tra traumi infantili, abusi e la frammentazione dell’identità. In questa intervista esclusiva, risponde alle domande su queste complesse tematiche e sul ruolo della psicologia nel comprendere e affrontare disturbi come il DID (Disturbo Dissociativo dell’Identità).


Partiamo subito con le domande più 'dense': nel libro fai riferimento al 'Monarch Project'; cos'è e come ne sei venuta a conoscenza?

Si tratta di un progetto clandestino messo in atto dalla CIA durante gli anni ’50, per poi venire ufficialmente interrotto nel 1973, a causa dello scandalo che ne derivò. Lo scopo consisteva nel testare una serie di tecniche atte a ‘stordire’ il soggetto-cavia (inconsapevole) per poi estorcere le informazioni richieste durante i successivi interrogatori e/o le disumane torture operate dai cosiddetti “programmatori”. Tali esperimenti prevedevano, tra le altre cose, l’impiego di farmaci e droghe (es. l’LSD), oltre a tecniche quali l’ipnosi, l’elettroshock e la lobotomia. Frequenti erano, inoltre, gli abusi fisici/sessuali (e, per le donne, gli aborti forzati).
La mia conoscenza del Monarch Project deriva da interessi di natura sia criminologica che giornalistica, antecedenti la stesura del libro.


Perché hai deciso di parlare del 'Monarch Project' in “Schegge Traumatiche”?

Ho riscontrato degli interessanti collegamenti tra la storia ‘multi-traumatica’ di Kim Noble - la quale ha dato origine al suo Disturbo Dissociativo dell’Identità - e le tecniche del Monarch Project, atte al controllo mentale.
Il tutto viene, ovviamente, chiarito all’interno del libro; nello specifico, durante la presentazione dell’Alter Ria: dodicenne che sembrerebbe conservare le memorie di tale esperienza (che, ipotizziamo, sia avvenuta durante l’infanzia di Kim), così com’è comune nel caso degli Alter Infantili.
Ciò verrà dimostrato, all’interno dello scritto, tenendo conto di un’analisi psicologica dei dipinti prodotti da Ria.


Oltre al caso di Kim Noble mi viene anche in mente il caso di Billy Milligan. Le loro personalità hanno tratti differenti. Qual è il legame tra il
loro stato dissociato e gli abusi subiti?

Più che di “stato dissociato” occorrerebbe parlare - nello specifico - di Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID). Per quanto differenti, infatti, entrambe le storie risultano caratterizzate da elementi tipici di tale condizione psichiatrica; esempi sono le frequenti amnesie, gli episodi dissociativi, il ricovero presso strutture psichiatriche e il mancato riconoscimento, da parte delle stesse, della corretta condizione clinica (episodio, ahimè, assai frequente).
Inoltre, ad accumunare le storie di Kim Noble e di Billy Milligan vi sono i ripetuti tentativi di suicidio; sventati, oltretutto, in ambo i casi, da Alter che solitamente possiamo inquadrare nella categoria dei Protettori (classificazione, anche in questo caso, approfondita all’interno del libro).
Sia Noble che Milligan hanno vissuto un’infanzia costellata da traumi che si sono perpetrati nel tempo, e ciò ha comportato una scissione della loro psiche, la quale ha trovato nella creazione dei vari Alter e nel ricorso alla dissociazione patologica un modo per fronteggiare un dolore e un senso di angoscia altrimenti intollerabili. Di questa “sommatoria traumatica” (termine da me coniato) si parlerà approfonditamente in “Schegge Traumatiche: Kim Noble e le sue venti personalità”, dove - al fine di rendere più agevole la comprensione di tale dinamica psichica - propongo la metafora dello specchio (l’Io del bambino) e dei sassi (i traumi subiti). A causa di questi perenni ‘urti’ avrà origine una frammentazione dell’Io (ancora non ben strutturato), a cui segue la nascita dei vari Alter. Riproponendo la metafora sopraccitata, potremmo identificare la frammentazione dello specchio come episodio che conduce alla creazione dei vari “stati alternativi del Sé”, metaforicamente rappresentati dai frammenti dello stesso specchio: uno di essi corrisponde ad un Alter.


Perché questi abusi perpetrati nel tempo favoriscono il manifestarsi del Disturbo Dissociativo dell’Identità?

Il principio è quello della metafora precedentemente illustrata: nella maggioranza dei casi (seppur non in tutti!), infatti, è proprio l’accumulo di traumi (“sommatoria traumatica”) - piuttosto che il singolo evento - a comportare la scissione della psiche dell’individuo, da cui ha origine il DID.


La conoscenza in merito al Disturbo Dissociativo dell’Identità sono relativamente scarse in merito alle altre forme di disturbo dissociativo?
Queste disconoscente potrebbero portare a diagnosi errate?

Per chi non fosse del settore, mi permetto di specificare - ancor prima di ‘entrare nel vivo’ della domanda - quali siano i disturbi dissociativi; ovvero: amnesia dissociativa, fuga dissociativa e disturbo di depersonalizzazione/ derealizzazione, oltre al DID.
Questi possono essere collocati lungo un continuum: il più ‘estremo’ è proprio il Disturbo Dissociativo dell’Identità, che - per ricollegarmi alla domanda postami - risulta, indubbiamente, caratterizzato da minor letteratura.
Ciò ha comportato una certa scetticità tra gli accademici; alcuni dei quali si sono perfino spinti a mettere in dubbio la sua reale esistenza, attribuendo (erroneamente) la sintomatologia caratteristica del DID alla schizofrenia, con tutti gli esiti del caso. Una non corretta diagnosi (comportata dall’ignoranza, intesa in quanto mancata conoscenza), può, infatti, causare importanti disagi al paziente (es. esiti di un errato trattamento psicofarmacologico).
Ritengo che una certa scetticità sia - riprendendo il pensiero di Kuhn - inevitabile conseguenza di un imminente “cambio di paradigma”.
Ciò che sento di raccomandare al lettore è di tentare di approcciarsi al fenomeno del DID e, più in generale, al meccanismo difensivo della dissociazione, con una ‘sensibilità vicina all’esperienza’; ovvero, da un punto di vista empatico.
La domanda che mi e vi pongo è la seguente: perché risulta così difficile comprendere e accettare gli straordinari meccanismi che la psiche è in grado di attivare al fine di difendere il proprio equilibrio dinnanzi ad eventi che, altrimenti, risulterebbero impossibili da sopportare?


Hai indicato l’ipnosi come tecnica privilegiata per il trattamento del Disturbo Dissociativo dell’Identità. Qual è il suo obiettivo?

Unificare i differenti Alter; creare, in altri termini, dei ponti metaforici che colleghino i vari “stati alternativi” al fine di costruire un Sé coeso, integrato e di cui facciano parte tutte le ‘personalità altre’. Nessuna di esse, infatti, deve essere ‘eliminata’: non è questo l’obiettivo dell’ipnosi, perché perfino gli Alter Persecutori hanno come scopo quello di ‘proteggere il corpo’.
Solo attraverso tale connessione l’individuo avrà la possibilità di percepirsi in quanto tale: avrà, infatti, conosciuto ed accettato ogni parte di Sé.
All’interno del libro, trattando tale argomento, propongo un confronto tra Kim Noble e Sybil, spiegando perché quest’ultima - a differenza della prima - sia una personalità ad alto funzionamento.

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