Il verbo greco “poieo”, da cui viene il termine “poiesis”, poesia, significa fare, inventare, comporre, creare. Poiesis è azione e creazione, capacità di portare all’esistenza, di dare consistenza a qualcosa seppellita nel nulla. Questo significato forte della poesia si divide tra l’attenzione alla lirica e all’epica di Omero e tra la tragedia di Eschilo, la storia, il canto, e la lirica amorosa. “La poiesis tutta io considero e definisco parola con metro che in chi l’ascolta infonde un brivido di timore e una compassione carica di pianto e una bramosia che indulge al dolore”: così Gorgia, riportato da Platone nel dialogo “il Sofista”, con l’altra considerazione che la vera arte provoca una malattia che è più dolce della salute. Il tutto sta nel lasciarsi prendere, nel sentirsi dentro ciò che si sta ascoltando, nell’immedesimarsi con la sorte dei personaggi verso i quali ci si sente attratti, nel viverne e condividerne la storia.
Davanti a questa moderna concezione, che parte dal sentire più profondo e dilaga, sprofonda nel mondo dell’emozione e del gusto, la posizione di Platone è duplice: da una parte, nell’Ione sostiene che l’arte, e quindi la poesia, che ne è una espressione, “non è un’opera umana, bensì dono del divino”, ovvero che la produzione artistica è “divina mania”, dall’altra sostiene (Repubblica) che l’arte nasce dalla sensibilità,, la quale è “una facoltà deteriore dello spirito che la sostiene e rendendola vigorosa porta a rovina la facoltà razionale. L’arte imitativa è luogo del vero, come sembra, per questo esegue ogni cosa, per il fatto di cogliere una piccola parte di ciascun soggetto, una parte che è copia”. Tradotto in termini più semplici, siccome le cose sono imitazione delle idee, l’arte, che imita e riproduce le cose, è “imitazione dell’imitazione”. La condanna platonica, nella sua radicalità, destò stupore e scandalo in un mondo come quello greco, dove le arti, personificate dalle Muse, compagne di Apollo, rappresentavano un modo di essere fondamentale dell’identità dello spirito greco, “l’eterna magnificenza del divino” (Walter Friedrich Otto, “Theophania”, Genova, Il Melangolo, 1996, p. 49..). Platone rivide più tardi la sua posizione riprendendo l’accenno dello “Ione” e sostenendo che l’arte è tale quando nasce da una divina ispirazione, quando cerca di superare la semplice riproduzione, e si ripropone di cogliere l’integrità dell’idea, la perfezione e la bellezza attraverso la riproduzione: che è la concezione “storica” dell’arte greca.
Anche Aristotele non si distacca molto dal concetto dell’arte come di “mimesis” del possibile “relativa alle cose che possono essere diversamente da come sono, secondo verisimiglianza e necessità”. Lo stimolo etico di Aristotele aspetterà più di mille anni per maturare una concezione dell’arte come apprendimento e come incremento di conoscenza, escludendo la grandezza di Dante, la cui poesia non si distacca mai dalla sua funzione catartica. Nel 1575 Enea Silvio Piccolomini, poi papa, nelle sue “annotazioni sulla poetica di Aristotele individuava il principio del “docère”,, mentre il suo contemporaneo Castelvetro, qualche anno prima, nel 1570, nella sua “Poetica di Aristotele vulgarizzata” individuava il principio del “delectare”. Insegnare e divertire, apprendere e godere. Forse si era andati oltre il nobile principio caro a Dante della “catarsi”, l’arte come purificazione interiore, come momento di riflessione con se stesso, di analisi dei propri vizi e difetti e di rimescolazione di essi con un obiettivo di riappropriazione della propria identità.
Da allora i discorsi sulla poesia sono come un elastico che si stira e si ritira, in relazione a ciò che l’autore o interprete che sia, vuole dimostrare. Nel rimestarsi di nuovi e vecchi principi che hanno caratterizzato la civiltà contemporanea, la poesia è quella che tra le arti ha perso più terreno prima di tutto perché è più facile, e per certi aspetti più completo, comunicare attraverso le immagini un evento o uno stato d’animo. L’immagine arriva subito al cervello, attraverso l’occhio e attraverso l’orecchio, non ha bisogno di attraversare l’ulteriore passaggio della trasformazione in parola che comprenda una la perfetta correlazione tra significato e significante. Probabilmente la poesia potrebbe avere un futuro se ad essa si associassero musica e immagini, più o meno come avviene con la canzone.
L’altro elemento di distacco quotidiano dalla poesia è stranamente, la sua “volgarizzazione”. Parecchie persone hanno, nella loro vita, scritto qualcosa, credono di avere raggiunto alti vertici espressivi, in realtà raccontando solo di se stessi, della loro soggettività, magari trasformata in dolore espresso in parole, senza rendersi conto che alla base di ciò che rende tale una poesia è la sua capacità di diventare universale, la possibilità che ogni uomo e ogni donna possa riconoscersi nei versi che sta leggendo e nella sensibilità di chi li ha scritti. Leggere le paranoie e i lamenti degli altri interessa ben poco se questi non servono a lenire i sintomi del proprio malessere.
Nel vasto orizzonte della poesia e negli spazi che essa ancora possiede, ci sono poeti, poetuncoli, poetastri, Poeti di razza e sottoprodotti di incroci malamente associati, poeti originali e scopiazzatori di versi, poeti che, nel loro interno hanno scavato laghi di dolore o di gioie e verseggiatori bravi nell’uso della parola come strumento del nulla, ci sono geni e cose inutili, trasmettitori di stupore ed esperti d’insignificanza. E ancora, cultori del contenuto, cultori della forma, cultori della perfetta sintesi tra contenuto e forma. Poeti dai quali la poesia sgorga come una sorgente naturale, con tutta la sua freschezza e spontaneità, poeti che hanno affinato nel tempo la propria tecnica espressiva riuscendo a maturare un verso o una riflessione con lunghe ricerche in cui possano essere mediate la musicalità e l’intensità del sentire. Sino a qualche secolo fa si era poeti solo se si era verseggiatori, se si era capaci di adattare la rima, di costruire il sonetto, l’ottava, le terzine, l’endecasillabo, il distico, la strofa, la canzone, o per andare più indietro, l’esametro, il pentametro, il tetrametro trocaico ecc. Oggi, anzi, dopo Leopardi, questo vincolo è saltato o può servire solo a qualche verseggiatore che abbia voglia di giocare o di cementarsi con gli antichi strumenti espressivi. Ce ne sono tanti, soprattutto verseggiatori dialettali, che ancora cercano la rima, l’assonanza col verso precedente. Senza rendersi conto che il campo espressivo ha ormai rotto questi argini, rendendoli a volte ridicoli.
La metafora
La metafora costituisce la via d’accesso principale al mondo del poeta: “Nessuno capiva il profumo dell’oscura magnolia del tuo ventre”: e dietro questa trasposizione di Lorca si aprono miriadi d’immagini in cui sesso, fiori, profumi, si mescolano in un insieme che va oltre ogni immaginazione.
“Nessuno sapeva che martirizzavi un colibrì d’amore tra i tuoi denti”:
una raffigurazione dell’altro sesso che porta con sé la leggerezza delle ali, la voglia di volare verso i segreti più nascosti, l’acme del piacere che quasi diventa sofferenza.
Potremmo passare al dantesco “quali colombe dal disio chiamate”, al foscoliano “e le segrete- vie del mio cor” o al leopardiano “limitar di gioventù” o alla montaliana “sonnolenza del meriggio”.
La configurazione di un’immagine affine in cui trasporre il dato che si presenta sotto gli occhi e si esprime nel suo vocabolo, nel “significante”, può raggiungere cime altissime in cui la fantasia si lega con il filo della comparazione che spesso esaspera il significato nascosto di ciò che si vuol dire e lo trasferisce in una dimensione in cui lo spazio di conquista o il tracciato di una rappresentazione onirica raggiunge livelli ipertrofici per tornare entro i limiti di chi si è avventurato in questi orizzonti e ripartire alla conquista di altre associazioni.
Il mestiere del poeta
Non è facile mediare “il mestiere di vivere” col “mestiere del poeta”, anche perchè non sempre quello del poeta è un mestiere, non lo era neanche per Pavese, che ha coniato il termine e ne ha delineato le caratteristiche. Ci si può perdere nell’imbrunire, nella sfumatura rapidamente cangiante d’un tramonto paragonando (Foscolo) il proprio bisogno di quiete con lo scendere delle ombre, oppure cercare di sprofondare nel “l’ora in cui le cose sono vicine a svelarti il loro ultimo segreto” (Montale), sentire i sospiri rauchi di questo ignoto che allenta i suoi vincoli prima di abbandonarsi al buio in cui niente è più leggibile. Oppure lanciarsi nella descrizione degli arabeschi disegnati dalle nuvole e dalle metamorfosi cromatiche. Esteriorità e dimensioni interne sono gli elementi di una spirale in cui si sfaldano i sentimenti e si amalgamano le tensioni spesso per la costruzione di un prodotto che può avere un destinatario esterno o può appartenere solo a chi lo realizza. E’ la divina “poiesis”, il fare, il dare corpo al sentire, il rendere cosa ciò che è soltanto un’idea: ed è ciò che giustifica la condanna platonica della poesia, ma che nel contempo la rende proprietà di tutti, la fa uscire dalla “caverna” e ve la fa rientrare potenziata dalla luce dell’autenticità.
E’ vero, non si potrà mai comunicare l’ampiezza e la ricchezza del sentire e non credo che sia possibile far diventare proprietà comune ciò che appartiene gelosamente alla propria soggettività: qui sta l’angoscia e la salvezza del poeta: “non si saprà mai se il proprio piacere è condiviso” direbbe Pavese, ma si finisce con il fermarsi su una soglia in cui non si ha voglia di fare entrare nessuno, malgrado la disponibilità a tenerne spalancato il primo accesso.
L’immagine e il pathos
L’immediatezza dell’immagine catturata da una cinepresa o da un cellulare, elimina il bisogno della sua descrizione, Ma quanto, rispetto all’apparire, alla rappresentazione, al fenomeno, al contenuto dello scatto è nascosto in una dimensione noumenica più intima e più profonda? Quanto, l’arte del recitare è la chiave di lettura dell’anima di chi recita?
C’è un’altra considerazione: in tutta la letteratura occidentale l’accesso al mondo della poesia è in gran parte determinato dal “pathos”: si trasforma più facilmente in poesia ciò che ha a che fare con il dolore, con la sofferenza intima, con la macerazione del sentimento: la gioia, la serenità, la soddisfazione difficilmente sono riducibili in versi, forse perchè si preferisce vivere e godere direttamente questi sentimenti e questi momenti, senza l’urgenza o lo stimolo a trasformarli in reperti scritti o in disegni letterari.
L’adolescenza e la giovinezza, senza volere ricorrere ad analisi crociane, sono i momenti in cui la poesia è più vicina, forse per il bisogno di trovare un momento espressivo non banale, oppure per la scoperta di un sentimento, lo snodarsi e svelarsi delle sue articolazioni, l’urgenza di definirlo, di trasporlo in parole, di chiarirlo a se stessi. Poi si diventa pratici, dispersi in un mare di altri interessi e problematiche che hanno più a che fare con l’esterno e con rapporti trans-emotivi, il rapporto con il verso si insterilisce sino ad avvertirne fastidio.
Il futuro
C’è ancora un futuro per la poesia? I nobel vengono generalmente attribuiti ai romanzieri e la prosa sembra il modulo espressivo più facile, più articolato e più fruibile da parte del lettore.
Del poeta d’un tempo, sia di quello impegnato civilmente, sia del lirico, sia del sapiente descrittore delle bellezze naturali, è rimasto ben poco, fagocitato dall’urgenza di trovare il prodotto già pronto che non ti costringa a sforzi mentali.
Carducci dice che “il poeta, o vulgo sciocco, un pitocco non è già”, mentre De Gregori e De Andrè cantano: “I poeti che strane creature, ogni volta che parlano è una truffa”. Ma è una truffa la poesia delle loro canzoni, o un veicolo di emozioni? Gli editori ormai lo ripetono come un ritornello ai giovani che chiedono di pubblicare i loro versi: “Carmina non dant panem”. Così era anche duemila anni fa e da allora i “carmina” sono sopravvissuti conquistando a fatica, ma inesorabilmente il loro spazio e il loro profumo d’immortalità. E poi, perchè non illudersi, da poeti, che oltre la crisi non possa nascere una nuova stagione?
Tratto da: ilcompagno.it