“Chi diceva che la parola <omertà> avesse senso solo da Roma in giù,
non aveva idea di cosa fosse il maledetto Nord. E l’Alto Adige era Nord
al massimo del suo splendore. Cinismo italiano spacciato come <realismo>
e teutonica indifferenza dipinta come <autocontrollo> fusi in un unico blocco
di apatia e rancore.” (da Il girotondo delle iene di Luca D’Andrea)
“Questa comunità è stata ingiustamente mortificata da vicende che l’hanno solo toccata, che sono state superate e saranno sicuramente dimenticate grazie all’impegno di un’amministrazione che vorrà fare tanto per la comunità”.
Con queste parole l’assessore provinciale Achille Spinelli ha espresso il sostegno alla lista “Lona-Lases Bene Comune” che il prossimo 25 febbraio sfiderà il quorum, essendo l’unica lista sulla scheda elettorale. Lo ha fatto lo scorso 2 febbraio davanti ad un Teatro di Lona gremito di gente, platea di fronte alla quale nessuno dei candidati ha osato pronunciare le parole “mafia” o “Perfido”, nonostante il Comune di Lona-Lases si sia costituito parte civile nel recente processo che, per la prima volta in Trentino, ha sancito (sia pure in primo grado) il reato di “associazione a delinquere di stampo mafioso”.
Le parole dell’assessore provinciale allo Sviluppo economico sono assai significative e, a nostro avviso, di estrema gravità. Da una parte testimoniano, infatti, il disinteresse di chi governa l’Autonomia provinciale per i gravi fatti emersi negli ultimi dieci anni, non solo a Lona-Lases, ma all’interno di quel comparto estrattivo del porfido che costituisce, a detta dello stesso assessore, “l’unico distretto industriale della nostra provincia”. Dall’altra, costituiscono la chiara ammissione che il compito principale assegnato alla “nuova” amministrazione sarà quello di rimuovere, far dimenticare e dunque sopprimere sul nascere ogni anelito di curiosità volta alla conoscenza, suscitato dal contenuto della sentenza emessa dal Tribunale di Trento il 27 luglio 2023.
Sentenza le cui motivazioni erano state illustrate e spiegate dal Prefetto lo scorso 28 novembre, anche se purtroppo ad ascoltare il dott. Filippo Santarelli c’erano solo una dozzina di cittadini del luogo.
Il disinteresse è forse in qualche modo interessato?
Già di per sé il disinteresse da parte della politica rispetto a queste vicende è un fatto grave e purtroppo conclamato. In questi dieci anni abbiamo più volte incontrato i capigruppo delle forze politiche rappresentate in Consiglio provinciale ma, purtroppo, soltanto da parte dei consiglieri Filippo Degasperi e Alex Marini le nostre segnalazioni sono state prese sul serio.
Indipendentemente dalla maggioranza che si trovava a governare nell’Autonomia provinciale è prevalso un generale disinteresse verso tali questioni, non però del tutto disinteressato. Laddove abbiamo evidenziato palesi inadempienze da parte delle Amministrazioni comunali di tutta la zona del porfido, come nel caso del mancato recepimento nei disciplinari di concessione del co. 5 art. 33 della L.P. 7/2006, relativo alla “tutela dei livelli occupazionali”, inadempienza protrattasi per un arco temporale significativo, la maggioranza ha cercato di correre ai ripari introducendo puntuali modifiche legislative atte ad evitare ogni conseguenza sanzionatoria per le aziende concessionarie che, in spregio a quanto stabilito dalla legge, avevano operato massicce riduzioni di manodopera. Ma non bastava, di fronte ai nostri esposti alla Magistratura nei confronti di tutte le Amministrazioni comunali della zona che, da ben 6 anni, erano inadempienti rispetto a quanto stabilito dalla legge (“...il comune provvede all’aggiornamento delle concessioni e dei relativi disciplinari prevedendo, con apposita clausola, i livelli occupazionali da mantenere per la durata delle concessioni…”) e pure nei confronti della Giunta provinciale, colpevole di non aver vigilato e non essere in alcun modo intervenuta, l’assessore Alessandro Olivi (dieci anni fa sulla poltrona oggi occupata da Spinelli) non trovò di meglio che spostare i termini per adempiere all’obbligo di legge. Anziché “contemporaneamente all’atto di proroga delle concessioni”, avvenuto nel 2010/11 (come prevedeva la L.P. 7/2006), con la sua proposta di revisione della legge cave approvata dal Consiglio provinciale nel febbraio 2017, ha stabilito come termine per adempiere “entro il 31 dicembre 2017” (L.P. 1/2017). Così facendo egli metteva al sicuro gli amministratori provinciali e comunali da conseguenze sul piano giudiziario e, nel contempo, sanciva licenziamenti avvenuti da parte dei concessionari fino al 60% della manodopera occupata al momento della proroga delle concessioni, legalizzando un forte taglio occupazionale con enorme danno per i lavoratori.
Emerge da tutto ciò una perfetta sintonia tra le precedenti Giunte a maggioranza di centro-sinistra e le successive di centro-destra (ne è la riprova la “tenuta a battesimo” della nuova lista, alla quale hanno partecipato non solo i consiglieri provinciali Segnana e Spinelli (Lega) ma anche Cia (FdI), Maule (Campo Base) e Zeni (PD)); sintonia che si sostanzia nella volontà di rispondere positivamente ai desiderata della potente lobby dei concessionari di cava del porfido e, nella contingenza attuale, di impedire che attraverso lo squarcio nel velo provocato dall’indagine dei carabinieri del ROS si possano intravvedere cose che è meglio rimangano celate all’ignaro cittadino trentino.
Così come da sempre c’è stata la massima tolleranza da parte della provincia nei confronti di un perdurante, palese o latente, conflitto d’interessi che ha fin qui contraddistinto le amministrazioni comunali dell’intera zona del porfido, con i concessionari di cava nella doppia veste di controllati e controllori, di soggetti sottoposti alle norme da loro stessi predisposte. Concessionari di cava che negli ultimi quarant’anni hanno saputo stringere preziose alleanze con soggetti di ben altra provenienza, cointeressenze funzionali sia per condurre in porto grandi affari con denaro di dubbia provenienza che per mantenere sotto il proprio controllo le comunità locali da una parte e i lavoratori dall’altra. Ecco perché sono da ritenersi gravi le affermazioni fatte da Spinelli, così come l’operato del suo predecessore Olivi; rappresentanti entrambi di una classe politica subalterna agli interessi economici prevalenti e totalmente disinteressata alla difesa dei principi costituzionali.
In particolare ci si riferisce all’art. 41 della Costituzione della Repubblica Italiana che, pur riconoscendo la libertà della iniziativa economica privata ne detta anche i limiti: “Non può svolgersi in contrasto con la utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
Che fine ha fatto l’utilità sociale nel settore porfido?
Dal 1979, data di nascita del “Comitato per la salvaguardia dei laghi di Lases e Valle”, abbiamo sempre dovuto scontrarci duramente con la lobby dei cavatori, affinché l’attività estrattiva non avvenisse a danno dell’ambiente, della salute e della sicurezza.
Nel 1985 la comunità di Lona-Lases seppe, unica della zona, ribellarsi contro i detentori del potere politico-economico a causa del palese “contrasto con la utilità sociale” provocato dalla gestione delle cave (su territorio comunale o frazionale) da parte dell’iniziativa economica privata; una vera e propria “predazione”, consentita da canoni di concessione irrisori, che lasciava alle comunità solo dissesto ambientale. In quell’occasione andò a fuoco l’automobile di un assessore comunale (aprile 1986), venne fatta esplodere della dinamite a scopo intimidatorio, minacce scritte e telefoniche colpirono consiglieri comunali ed attivisti, segnalando che forse ci si avvaleva per la prima volta anche in Valle di Cembra di “picciotti” abituati a metodi tipicamente aspromontani. Metodi che, evolutisi, portarono a ristabilire l’ordine preesistente nel 1995, riportando sotto controllo l’elettorato di Lona-Lases, a danno della sicurezza e della libertà.
Come non ricordare che quell’amministrazione sciolse la briglia ai cavatori che, in spregio alle norme, ai piani e agli interventi sanzionatori del Servizio Minerario, determinarono quella situazione di grave pericolo per il paese di Lases (ma anche per chi transitava sulla sottostante strada provinciale) che fu la frana dello Slavinac? Come dimenticare le parole con le quali quel sindaco rispondeva al dirigente del Servizio Minerario che gli chiedeva conto dell’inerzia da parte dell’Amministrazione comunale? Il sindaco Dalmonego così rispondeva: “E’ vero che talvolta, al di là delle disposizioni di legge e della loro tassativa osservanza, si è cercato di comune accordo di mediare alle severe conseguenze lesive alla vita stessa delle imprese operanti in loco non arrivando all’adozione di soluzioni drastiche di revoca delle concessioni, bensì utilizzando piuttosto la possibilità di sospensione dell’attività nonché il regime sanzionatorio previsto dalla legge”.
La vita dell’impresa venne così anteposta alla tutela della sicurezza pubblica, facendo carta straccia dell’art. 41 della Costituzione, tanto che quel “regime sanzionatorio” non impedì alla ditta operante in loco di continuare a scavare in difformità rispetto alle prescrizioni, fino a destabilizzare un ampio versante del monte Gorsa. Fu così che, alle 23.20 del 13 ottobre 2000, i cittadini di Lases ebbero modo di sperimentare il disagio di una evacuazione notturna del paese, a seguito di una improvvisa accelerazione del movimento franoso e sull’intera comunità provinciale ricaddero poi i costi per la messa in sicurezza: ben 8 milioni di euro! Come da copione nessuna responsabilità venne cercata, individuata, sanzionata.
Ma nulla poteva ormai fermare il nuovo “blocco dominante” formato da imprenditori locali e soggetti probabilmente legati a consorterie criminali, tanto che si sono susseguiti ad amministrare il Comune, alternandosi, pressoché gli stessi soggetti, direttamente o indirettamente legati agli interessi economici leciti o illeciti di quel “blocco”. Tanto che anche la lista che si presenta all’appuntamento elettorale del prossimo 25 febbraio è composta per la maggior parte da soggetti che hanno alle spalle esperienze amministrative nell’una o nell’altra delle amministrazioni succedutesi dal 1995 al maggio 2021.
La questione però non riguarda solo Lona-Lases bensì tutte le Amministrazioni comunali della zona, da sempre contraddistinte per la loro sudditanza agli interessi dei concessionari di cava, come pure l’Amministrazione provinciale, sempre pronta a modificare puntualmente le leggi adottate per rispondere ai desiderata della lobby. Basti ricordare che esiste una discrepanza notevole tra i canoni di concessione provinciali e quelli praticati a livello europeo che sono pari, mediamente, al 20% del valore del semilavorato grezzo estratto. Qui non solo il sistema di rilevazione delle rese di cava (quindi del semilavorato grezzo estratto) si basa in gran parte sulle autocertificazioni dei concessionari, ma pure la percentuale di canone applicata è assai inferiore, tanto da determinare uno scarto pari a circa 10 milioni di euro/anno rispetto ad un volume estratto annualmente di circa 1 milione di metri cubi di roccia. Soldi che dovrebbero finire alle comunità e invece rimangono nelle capienti tasche dei concessionari: ecco perché spesso definiamo “predatoria” questa attività economica!
Un sistema garantito fin qui da tutte le maggioranze che hanno governato l’Autonomia trentina, in spregio a quella “utilità sociale” di cui parla l’art. 41! Garantito anche attraverso un sistematico occultamento, parzialmente emerso 15 anni fa in seguito alla causa legale che ha contrapposto per ben 10 anni i comuni di Baselga di Piné e Lona-Lases all’Asuc di Miola (in veste di capofila delle Asuc pinetane) presieduta da Massimo Sighel. Operaio che, nella sua veste di presidente Asuc, a causa della sua fermezza nel difendere realmente il “Bene comune”, nel 2008 ha pagato con il licenziamento dalla cava nella quale lavorava e in anni recenti ha ricevuto pesanti lettere anonime di minaccia in perfetto stile mafioso!
Ecco perché vanno ritenute gravi le affermazioni dell’assessore Spinelli che, così come la Giunta provinciale di cui fa parte, non si è mai degnato in questi anni di incontrare il C.L.P., audito qualche anno fa da una seconda Commissione legislativa provinciale che ha dimostrato in modo lampante e vergognoso tutta la sua disattenzione e con essa il suo disprezzo nei nostri confronti.
Art. 1 “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”
A questo punto è necessario allargare nuovamente il nostro orizzonte all’intero settore estrattivo del porfido e alla condizione operaia al suo interno, tenendo conto che, a partire dal 1988/89, la manodopera locale è stata sempre più massicciamente sostituita da operai extracomunitari (maghrebini, macedoni, albanesi e cinesi). Ciò non toglie che le tutele previste per il lavoro dipendente possano venire meno o essere diverse in base al colore della pelle, alla lingua, alla religione o all’etnia di appartenenza del lavoratore; i diritti o sono rispettati per tutti o diritti non sono più per nessuno. D’altronde la Costituzione parla di “dignità umana” in riferimento all’attività economica privata, senza alcuna distinzione e in tale categoria rientrano sicuramente anche i diritti dei lavoratori, senza distinzioni, la cui inosservanza offende indubbiamente la loro dignità di persone.
Tuttavia anche il settore del porfido è stato investito dal vento neoliberista che già soffiava nel mondo e quando la Magistratura intervenne per tutelare il diritto dei lavoratori alla sicurezza e alla salute, una parte delle imprese colse l’occasione per dare una spallata a quei diritti. Fu, infatti, nel 1993, in occasione di quella che è conosciuta con il nome di “vertenza delle trancette” che, grazie al provvidenziale intervento del senatore leghista Erminio Boso, la parte più oltranzista del padronato si apri la strada verso una profonda ristrutturazione del settore all’insegna dell’esternalizzazione delle lavorazioni, ovviamente in funzione della massima compressione del costo del lavoro.
Nel mezzo di una delicata quanto difficile trattativa (causa l’ambiguità delle Organizzazioni sindacali di categoria) piombò in valle l’on Boso che, capitanando una folta delegazione di esponenti locali della Lega Nord, si mise alla testa degli imprenditori del porfido per chiedere l’annullamento dei provvedimenti di sequestro delle trance per cubetti emessi dall’Autorità Giudiziaria.
Il 9 marzo 1993, prima di scendere a Trento, dove gli imprenditori e i militanti leghisti occuperanno per una settimana con camion e pale, e senza autorizzazione, piazza Dante, il sen. Boso volle dare pubblica dimostrazione del suo modo di intendere il dettato costituzionale. Presso la ditta Dossalt di Albiano, infatti, eludendo facilmente la sorveglianza dei Carabineri, tagliò con delle pinze i sigilli che erano stati posti a due cubettatrici, fatto per il quale egli è stato denunciato e successivamente sanzionato dal Tribunale di Trento, con parere favorevole da parte della Giunta per le autorizzazioni del Senato. Su questo atto di prepotenza, di rottura della legalità in totale dispregio dei diritti e della dignità e a danno dei lavoratori, si è fondato quel processo di ristrutturazione, all’interno del quale si sono create le condizioni per una pervasiva penetrazione di soggetti legati a consorterie criminali che hanno ulteriormente calpestato la dignità dei lavoratori. Con la complicità delle inadempienze da parte dei Comuni rispetto a quanto stabilito dalla legge provinciale in materia di cave, relativamente alla tutela dei livelli occupazionali, si è così potuto attuare quel processo di esternalizzazione massiccia delle lavorazioni (inizialmente intrapreso per sfuggire alle norme di tutela in materia di salute e sicurezza dei lavoratori) che ha portato a condizioni di feroce sfruttamento, tali da rasentare la “riduzione in schiavitù”. Questo era anche uno dei capi di imputazione contestati dalla pubblica accusa nel processo “Perfido”, anche se poi la Corte d’Assise lo ha derubricato a “caporalato” (non certo meno grave) grazie ad accordi di conciliazione in sede sindacale sottoscritti dalle OO.SS. (sicuramente almeno “condizionate”, come ha evidenziato in udienza l’avv. Sara Donini, in rappresentanza degli unici tre operai, di nazionalità cinese, costituitisi parte civile, con il sostegno del C.L.P.) e usati dagli imputati per dimostrare che gli operai godevano della libertà di rivolgersi al Sindacato. Sindacato che tuttavia, da numerosi atti di indagine, risulta in realtà contattato dagli stessi imprenditori accusati di associazione mafiosa o loro sodali.
Un Sindacato confederale la cui costituzione di parte civile nel processo “Perfido” è stata di pura facciata, nulla avendo fatto per informare ed aprire un dibattito su tutto ciò fra i lavoratori, se non addirittura “abusiva”, non essendosi limitato ad assecondare negli ultimi 30 anni i desiderata padronali, rendendosi corresponsabile della deriva per quanto riguarda le condizioni di lavoro nel settore, ma addirittura avendo assecondato le richieste di imprenditori in odor di mafia!
Si evidenzia in proposito come nel decennio 1991-2001 la principale opera condotta da Fillea-Cgil e Filca-Cisl sia stata volta ad eliminare sistematicamente ogni dissenso interno rispetto a tale linea di condotta, non esitando, nella fase iniziale, a scontrarsi frontalmente con la maggior parte dei lavoratori e dei loro stessi iscritti.
E’ in questo contesto che sono maturati nel 2014 sia l’estorsione nei confronti dei lavoratori avvenuta presso la ditta Anesi Srl, concessionaria di lotto cava a Lona-Lases, che il sequestro e pestaggio dell’operaio cinese dipendente della ditta artigiana Balkan Porfidi & Costruzioni, sempre a Lases nella zona artigianale Dossi-Grotta. Quella zona artigianale che, per intenderci, stando alla relazione della dott.ssa Morandini e dell’arch. Polla (tecnici mandati dalla Giunta Fugatti ad affiancare l’ultima amministrazione comunale eletta a Lona-Lases e durata non più di 9 mesi), sarebbe stata priva di acqua potabile, servizi fognari e di raccolta dei reflui industriali, quindi dei requisiti igienico-sanitari richiesti per gli ambienti di lavoro (oltre che per la tutela dell’ambiente), anche in questo caso provocando una grave lesione della integrità e dignità dei lavoratori.
Estorsione che unitamente al sequestro e pestaggio ha visto la condanna definitiva dei responsabili, alcuni dei quali coinvolti anche nel processo “Perfido”.
Tuttavia, questi fatti hanno rappresentato l’estrinsecazione di una violenza, sul cui potenziale intimidatorio si è fondato il feroce sfruttamento attuato negli ultimi vent’anni in questo settore e del quale quasi tutte le imprese hanno approfittato. Basti ricordare che le indagini, condotte nel 2016 dalla PG aliquota Carabinieri di Trento, sulla base dei nostri esposti, hanno fatto emergere gravi inadempienze contrattuali all’interno di un terzo delle ditte concessionarie di Albiano, con una mezza dozzina di denunce per falso in atto notorio in merito alle autocertificazioni di regolarità retributiva. Questo nonostante la Provincia, con la legge del 2006, avesse istituito il Distretto del porfido e delle pietre trentine, foraggiato ampiamente con soldi pubblici; nonostante l’adesione delle imprese alla “filiera del porfido” e l’adozione del marchio “Porfido del Trentino” con disciplinari di produzione che non hanno minimamente intaccato il processo di esternalizzazione in corso e il degrado delle condizioni di lavoro.
Tutto ciò fa suonare ancora più gravi le affermazioni dell’assessore provinciale allo Sviluppo economico, nelle cui competenze rientra anche il settore estrattivo del porfido, la cui attività non dovrebbe affatto prescindere dall’osservanza dell’art. 41 della Carta costituzionale.
D’altro canto vale la pena ricordare che nessuna istituzione provinciale o nazionale ha manifestato la benché minima vicinanza o almeno interesse per il nostro volontario impegno di supplenza sindacale, eccezion fatta per la Commissione Parlamentare Antimafia della XVIII legislatura e in particolare per il suo presidente sen. Nicola Morra.
Ultima questione, ma non per importanza
Prendendo spunto da una recente iniziativa, che ha portato un gruppo di ragazzi impegnati in un percorso di Giustizia riparativa ad incontrare il Coordinamento Lavoro Porfido quale “vittima” (in rappresentanza dei lavoratori e della comunità) dell’agire mafioso, occorre per completezza aggiungere un altro tassello ai nostri ragionamenti.
Si tratta di ragazzi generalmente coinvolti in procedimenti giudiziari relativi al piccolo spaccio di stupefacenti e questo serve ad introdurre l’ultima delle questioni, quella relativa alla provenienza del denaro reinvestito o riciclato dai coinvolti nelle vicende giudiziarie relative a “Perfido”.
Nella enorme mole di materiale accusatorio, prodotto dalle indagini dei Carabinieri del ROS, sono presenti le tracce dell’attività di spaccio e traffico di droga che alcuni degli indagati, o sodali delle cosche di riferimento, avrebbero operato fin dagli anni ‘80 del secolo scorso e non è difficile individuare riferimenti a tale attività rispetto alla provenienza di capitali di cui tali soggetti sono risultati disporre per le loro successive attività imprenditoriali.
Forti analogie sono emerse anche con il presunto locale di ‘ndrangheta di Bolzano, portato alla luce da un’indagine della Polizia di Stato conclusasi anch’essa nel 2020. Così come per “Perfido” anche in “Freeland” sono emersi legami, risalenti nel tempo, con soggetti stanziati in regione già negli anni ‘80 del secolo scorso e legati sostanzialmente all’ambiente dello spaccio di stupefacenti; in quegli anni era in voga l’eroina. D’altra parte il fatto che la nostra regione fosse attraversata dal traffico internazionale di armi e droga venne per la prima volta attestato dall’indagine condotta nel 1984 dal giudice Carlo Palermo; altro che regione immune da presenze mafiose!
Per acquistare quell’eroina molte ragazze (anche minorenni) furono indotte alla prostituzione, aggravando ulteriormente il carico di dolore delle famiglie; dolore straziante di fronte alle numerose morti “per overdose” (si leggeva sui giornali dell’epoca) che si registrarono nel decennio successivo al 1985. Carico di dolore ben rappresentato, per chi volesse leggerlo, nel romanzo giallo “Il girotondo delle iene” di Luca D’Andrea (edito da Feltrinelli nel 2022), ambientato proprio a Bolzano nei primi anni ‘90 del secolo scorso.
Oggi sappiamo che è la cocaina a dominare il mercato ma i suoi effetti, a lungo andare, non sono certo meno devastanti e ancora una volta a pagarne le conseguenze peggiori sono le famiglie meno abbienti, i ragazzi ai quali è affidato in sub appalto il piccolo spaccio col suo carico quotidiano di miserie e di violenza.
Si ricorda, in proposito, che è di pochi giorni fa una interpellanza parlamentare, a prima firma della deputata Stefania Ascari, che fa riferimento agli ingenti carichi di cocaina occultati in container di porfido spediti in Europa da Puerto Madryn, nella Patagonia argentina. Traffico intercettato dalla polizia spagnola a Valencia che, a detta degli investigatori, da almeno 5 anni muoveva carichi di cocaina del valore di svariati milioni di euro, con il “coinvolgimento” di aziende estrattive del porfido anche legate ad imprenditori trentini. Una indagine che, stando alla ricostruzione dell’on. Ascari, avrebbe portato a condanne in Spagna e in Argentina ma pare non essere mai approdata in Italia.
Ebbene, avendo noi avuto il piacere di fondare questo Coordinamento assieme ad un anziano socialista e partigiano, oggi non più tra noi, la cui famiglia è stata straziata dal dolore della perdita di una figlia, caduta allora in quel girone infernale dell’eroina, non possiamo esimerci dal ricordare le sofferenze e la devastazione sociale da cui provengono quei denari, sofferenza e devastazione che non ha risparmiato anche questa nostra Valle.
A questo proposito vorremmo ricordare all’assessore Spinelli che le vittime hanno tutto il diritto di dimenticare il proprio dolore, per quanto sia più facile a dirsi che a farsi, a differenza di chi quel dolore ha causato (e magari ne gode i proventi), la cui giusta pena dovrebbe essere almeno quella di ricordare. Una comunità è composta da tre categorie di persone, coloro che con i loro comportamenti hanno causato danno alla comunità e dolore a qualcuno, coloro che hanno subito e quella parte di comunità che si è ritagliata il ruolo dello spettatore, spesso indifferente a tutto, quando non addirittura omertosa. Non può esserci alcun risanamento della comunità se non si infrange il vetro dell’indifferenza (o peggio dell’omertà), se chi è stato spettatore non si incammina sulla strada che dal “me ne frego” conduce al “me ne importa”, provando empatia per le vittime (tra le quali rientra anche la comunità alla quale si appartiene) e men che meno se si pretende che chi ha subito dimentichi.
Un simile atteggiamento può solo favorire il perdurare di quei comportamenti, di quelle ingiustizie, che tanto dolore hanno fin qui causato: che sia quello di operaio pestato, fatto oggetto di ricatti o sotto pagato; dei suoi figli costretti per questo a privazioni; di famiglie distrutte dal dolore per una figlia perduta nei meandri della droga o per un figlio che finisce in carcere per spaccio. O che sia quello di una comunità “ingiustamente mortificata”(?) da vicende che, se non fosse stata così indifferente, forse non sarebbero avvenute! Una comunità che dovrebbe chiedere conto a qualcuno (compresi i legislatori provinciali) per essere stata sistematicamente depredata delle proprie risorse e del proprio “futuro libero e democratico”. Ineludibile, in pari tempo, è anche la necessità di avviare un possibile percorso riparativo, volto al reinserimento nella vita civile di coloro che hanno sbagliato e cagionato questo dolore.
Qui stanno tutte le ragioni del nostro impegno democratico, sulla base dei valori costituzionali essenziali per la civile convivenza, a difesa dei diritti dei lavoratori e di quella parte della nostra comunità, troppo spesso umiliata e offesa in nome del profitto di pochi.
Qui stanno le ragioni per le quali dissentiamo radicalmente da versioni consolatorie che considerano superati i problemi, o peggio, da coloro che si pongono l’obiettivo di far dimenticare in fretta quanto accaduto, dimenticando tra l’altro che le vicende giudiziarie non sono affatto concluse.
Qui stanno le ragioni che oggi determinano la nostra decisa avversione per il tentativo di normalizzazione in corso attraverso una farsa elettorale, esercizio formale di democrazia che, nella sostanza, nasconde il tentativo di dare continuità a quanto fin qui avvenuto.
Per questo invitiamo i cittadini a non fornire il consenso a simili manovre, e per questo continueremo il nostro impegno a reale difesa del Bene Comune e del diritto per tutti ad un “futuro libero e democratico”!