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Il 10 maggio 1994 Silvio Berlusconi assume la carica di Presidente del Consiglio. Da quel momento inizia la lenta, ma progressiva trasformazione del cittadino in consumatore.
La cui utilità per il paese non si misura in base delle qualità personali, ma sulla capacità di muovere denaro per scopi più o meno leciti.
Anni più che ruggenti, ruttati.
I mafiosi assurgono a eroi, le banche vengono costruite intorno a noi e si scomoda sant’Agostino per giustificare l’evasione fiscale.
La prassi costituzionale si arricchisce di metafore calcistiche. La prostituzione viene derubricata a burlesque, il pappone a facilitatore e il cliente a utilizzatore finale.
Epoca di autentica e compiuta democrazia diretta.
Nel senso che chiunque può diventare deputato, sottosegretario o ministro, purché sia nelle grazie dall’Amato Leader, nel più puro stile nordcoreano.
Andranno quindi al governo sensali, collaboratori, procacciatori, fiancheggiatori, ancelle e vestali. Insieme a transfughi socialisti, democristiani scompagnati e missini convertiti se non alla libertà, quanto meno al liberalismo.
È questo il clima, la congèrie politica e morale che forgia l’homo novus berlusconiano.
Tutto il resto, gli sdoganamenti del fascismo, le narrazioni renziane, i panozzi di Salvini in diretta Instagram, con la bazza bisunta di olio di palma, sono solo la naturale prosecuzione.
La fangosa tracimazione che fa seguito alla rottura della diga.
Applicando alla lettera i precetti del verbo berlusconista. Non futile alternativa tra avere ed essere, ma sciabolata che tronca ogni nodo gordiano al grido di: avendo sono.
Ridurre un simile colosso ai trent’anni di azione politica esercitata sarebbe riduttivo. Quando sale al potere, l’uomo ha già fatto tanto.
Italia 1, Milano 2, Milano 3, Retequattro, Canale 5.
Al 6 Baresi, 7 Donadoni, 8 Rijkaard e 9, forse, Van Basten, ma vediamo. Ha una caviglia in disordine. Incombe un problema tennico.
Potremmo ricordarlo in mille modi.
Onnipresente in tv, spiegare alla casalinga di Voghera, con sorriso Durban’s e sintassi abborracciata, quanto sarebbe meraviglioso essere governati da lui.
A Trieste, seminascosto dietro una statua, per fare cucù alla signora Merckel.
Senza dimenticare il pidduista costituzionale, l’incorruttibile evasore fiscale, l’inesorabile fustigatore di culone inchiavabili, il gaffeur seriale, il virile tombeur de putes, il lontano parente di Mubarak, l’ardente baciatore di anelli libici…
Piero Gobetti definì il fascismo la perfetta autobiografia di questa nazione.
Berlusconi non aspira a tanto. Piuttosto, considerandosi il miglior esemplare di bipede possibile, in questa e ogni altra galassia, invoglia il prossimo ad assomigliargli. Capocannoniere d’una peculiare categoria dello spirito.
Paradigma di marketing umano, emanatore di infiniti echi di becerismo, in cui il famigerato italiano medio, sublime pontificatore da Bar Sport, può riconoscersi e immedesimarsi.
Nel mito di una sempiterna Età della Pirite, ove scorrono fiumi di Tavernello e dal cielo piovono penne alla puttanesca.
Cosi i padri taciturni e risparmiatori si trasformano in figli picari e spendaccioni, usi a vivere al di sopra dei propri mezzi. Tanto ci sarà sempre una Findomestic disposta a far credito, per qualsivoglia necessità e urgenza. Il maxischermo al plasma, come la vacanza alle Seychelles.
Per risvegliarsi, svanito il sogno, più poveri e più brutti. Impoveriti nelle tasche e involgariti nell’animo. In un paese dove tutto funziona peggio di prima e perfino le cure mediche stanno diventando un privilegio per ricchi.
Sarebbe forse l’ora di introdurre nel codice la categoria del reato antropologico.
L’incidere sul tessuto sociale, disgregandone le maglie più antiche e preziose.
La colpa più grave di tutte. Che, volendo, potremmo riassumere in una semplice immagine.
Un tempo, gli arrestati uscivano di casa coprendosi il volto con i polsi ammanettati.
Adesso escono a fronte alta.
Fieri dell’opera svolta.

Foto © Imagoeconomica

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