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Lo scorso fine settimana su Libera Informazione abbiamo pubblicato il comunicato del SUGC che dava conto della condanna in primo grado degli aggressori della giornalista Luciana Esposito.

La pubblicazione del comunicato sulla sentenza prima, un post su Twitter poi – che lo rilanciava con i ringraziamenti di Luciana Esposito a Fnsi e SUGC e ai loro rappresentanti – hanno provocato il duro attacco da parte della stessa giornalista ai referenti campani di Libera, colpevoli di essersi schierati dalla parte dei suoi aggressori.

Qui potete leggere il post di Luciana Esposito.

Non abbiamo titolo per entrare nel merito, ma alcune considerazioni ci preme fare.

La prima è che “quelli di Libera”, così apostrofati nel post della giornalista, sono gli stessi che da anni, in silenzio, lavorano nei quartieri a rischio di Napoli per sottrarre i minori alla tentazione di arruolarsi nel sistema camorristico, come testimoniato da un impegno che dal basso è arrivato fino in Parlamento con le battaglie per destinare i fondi del Pnrr all’infanzia in difficoltà.

“Quelli di Libera” sono gli stessi che da anni s’impegnano per il riutilizzo dei beni confiscati alla camorra e che, pur tra le divisioni e le incomprensioni che una così lunga e snervante battaglia ha comportato, hanno raggiunto straordinari risultati dimostrando che il crimine non paga, mai.

“Quelli di Libera” sono gli stessi che sono da anni al fianco dei familiari delle vittime innocenti delle mafie e che il prossimo 21 marzo chiederanno verità e giustizia per i loro cari, proprio dalla piazza di Napoli.

Si è detto e scritto in questi anni di tutto e di più di Libera, con un particolare gusto negli ultimi anni a individuare limiti e mancanze di un’esperienza che dopo 27 anni è ancora in prima fila in questo Paese nel denunciare mafie e corruzione.

Vicende come quest’ultima – nella quale l’attività giornalistica di Libera Informazione viene utilizzata come arma impropria nei confronti di Libera Napoli e Libera Campania – dimostrano ancora una volta che se le mafie e le camorre ad ogni latitudine sono forti più che mai è anche perché il fronte dell’antimafia è diviso da polemiche e divisioni che, a volte incrociano situazioni dolorose che invece avrebbero dovuto essere gestite diversamente.

In passato abbiamo sempre dato notizia delle vicende processuali riguardanti i cronisti minacciati da mafiosi, fascisti, criminali perché è nel Dna di Libera Informazione stare vicino a chi è senza tutela nel fare il proprio lavoro giornalistico in territori difficili: Roberto Morrione prima e Santo Della Volpe poi sono sempre stati pronti a denunciare le minacce alla libera informazione, accompagnando anche con discrezione ma decisione la nascita di Ossigeno e la scorta mediatica di Articolo 21. Abbiamo imparato da loro e continueremo a farlo, sempre, senza aspettare il timbro della Corte di Cassazione, perché è meglio dare una solidarietà in più, sbagliando pure qualche volta, che lasciare un cronista minacciato terribilmente solo.

Fare questo non vuol dire salire sul carro del vincitore, perché nel caso di una violenza ad una donna, ad una giornalista come in questo caso, non ci sono né vincitori, né vinti, ma solo una società incapace di fare fronte comune alle minacce e alle aggressioni, se non in sede processuale.

Siamo tutti responsabili.

E siamo tutti responsabili anche del linguaggio utilizzato. Perché tutte le possibili ragioni del mondo rischiano di venir meno, se alle minacce e alle violenze si risponde con i calci nel sedere dati a “quelli di Libera”, sia che stiano a Napoli che a Torino, che a Milano (dove vivo e lavoro).

Se cattiverie e calunnie ci sono state, si trovi il modo di chiarirsi, non sui social, ma di presenza. Non insultando, ma parlando.

Noi, “quelli di Libera”, “quelli di Libera Informazione”, siamo disponibili.

Tratto da: liberainformazione.org

Foto: it.depositphotos.com

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