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Nel 1979, infatti, nel corso di un’intervista, ,alla giornalista Marcelle Padovani, nel libro “La Sicilia come metafora”, Leonardo Sciascia disse: «E come volete non essere pessimista in un paese in cui il futuro non esiste?». Riferendosi al fatto che nel dialetto siciliano il tempo futuro morfologicamente non esiste e che al suo posto si usa il presente, lo scrittore si lasciava andare a una sorta di considerazione sui siciliani che non hanno il tempo futuro e che hanno perso la loro capacità di guardare avanti a causa delle immutate condizioni di vita alle quali sono stati costretti in secoli di dominazioni straniere. Il problema è accennato nel blog Sicilian post, in un articolo di Joshua Nicolosi, del 22 luglio 2018, che scrive: “Il siciliano, insomma, per costituzione, non può pensare in prospettiva, semplicemente perché è incapace di scorgerne una: un conto è parlare al passato, sulla cui certezza non si può discutere, un conto è spingersi troppo in là con le illusioni. E, a ben guardare, è proprio questo il punto focale della questione: i siciliani sono bloccati nell’eterno limbo del presente, oppressi dai ricordi e impegnati nella lotta per la sopravvivenza di ogni giorno. Come biasimarci, del resto? Ogni volta che si è sperato in futuro migliore, puntualmente la svolta ci è stata negata: nella storia siciliana, per ogni Garibaldi c’è un Nino Bixio. E come giudicare, poi, la cronica sfiducia nella politica, ritenuta incapace essa stessa di guardare con lucidità al domani? In questa prospettiva, paradossalmente, il siciliano è l’uomo più incorrotto di tutti, perché non pensa al futuro come gli altri vorrebbero che facesse, non cade preda di facili entusiasmi, non abbandona facilmente il noto per lanciarsi nell’ignoto”.
Altri studiosi hanno tentato di darne altre spiegazioni: Salvatore Baiamonte (10 agosto 2021) sul blog Cademia Siciliana rileva che sul WALS online (World Atlas of Language Structures) su 222 lingue menzionate a proposito di questa caratteristica, 112 lingue non hanno un tempo futuro apposito, le restanti 110 sì. Tipico lo “specificatore temporale”, esempio, “domani vado al mare”, dove il senso del futuro è nell’avverbio “domani….Tra le altre lingue che usano questa struttura per indicare il futuro troviamo ad esempio il tedesco (ex: “Morgen fahre ich ans Meer”, “domani vado al mare”, dove la forma verbale “fahre” è al presente e dove troviamo l’avverbio “morgen”, cioè “domani”, con valore futuro) e il francese (ex: “Demain je vais à la mer”, dove la forma verbale “(je) vais” è al presente, di nuovo affiancata dall’avverbio “demain”), nonché lo spagnolo e l’inglese, e ovviamente l’italiano.... Il siciliano offre un’ampia gamma di strategie per esprimere il senso del futuro, come il cosiddetto futuro perifrastico (o futuro analitico), cioè la struttura <aviri (coniugato) + “a” + infinito>: questa struttura infatti nasce per indicare il concetto di obbligo, e si usa così ancora oggi, ma poi il suo significato è stato ampliato per indicare anche il concetto di futuro: a seconda del contesto, quindi, “àju a jiri a mari” può significare tanto “devo andare a mare”, quanto “andrò a mare”, secondo un ragionamento per cui “devo fare X → siccome devo farlo, lo farò”.
Pertanto il pessimismo di Sciascia non è sempre giustificato: il futuro non c’è nel dialetto siciliano tanto quanto non c’è in molte altre lingue. La sua assenza non ha necessariamente una lettura e una spiegazione negativa: vivere nel presente, vuol dire restare con i piedi a terra, valutare l’esistente con sano realismo, essere nel proprio tempo senza farsi incantare da chimere fantastiche o da promesse improbabili , considerare quanto programmabile come una componente essenziale della sua fattibilità, non affidarsi ai sogni. C’è un risvolto che richiama il conservatorismo, molto presente nella cultura siciliana, spesso in quella intrisa di mentalità mafiosa: “munnu ha statu e munnu è” è una chiara espressione dell’immutabilità delle cose, riscontrato in altri proverbi: “ognunu godi lu statu chi è”, “cu lassa la vecchia strata pi la nova nun sapi soccu trova”: in questi proverbi si legge la teoria verghiana dell’ostrica che rimane chiusa nel proprio guscio, perché non appena ne esce fuori è risucchiata dal mondo esterno. In pratica è la prima regola della morale provvisoria di Cartesio, che comporta l’accettazione passiva della realtà, della propria condizione, della sopravvivenza.
E pertanto l’assenza del futuro non ha una lettura univoca, ma differenzia uso e significato in rapporto alle classi sociali e alla loro condizione economica. Si potrebbero ancora fare altre analisi sulla scarsa capacità dei siciliani di fare investimenti per il futuro, anche in considerazione che c’è la mafia a bloccare qualsiasi attività produttiva con la pretesa di vivere parassitariamente sul lavoro degli altri o sulla loro difficoltà ad aggregarsi in società e cooperative, per una congenita diffidenza verso il possibile socio o compagno. Non è stato sempre così, ma spesso i vari tentativi di aggregazione, dai Fasci siciliani alle occupazioni delle terre incolte, sono stati repressi nel sangue e hanno confermato secolari privilegi e immutabili condizioni di vita. Forse sta lì uno dei motivi dell’assenza del tempo futuro.
Ed è proprio a questo punto che scattano reazioni e considerazioni che ribaltano qualsiasi precedente analisi. La mancanza di entusiasmi, di iniziative, di intraprendenza, in alcuni momenti si trasforma nel suo opposto: un illustre sconosciuto imprenditore milanese con il suo nuovissimo partito Forza Italia, riuscì a conquistare nel 2001 tutti i 61 collegi elettorali siciliani, un altro “profeta” di un’età nuova, grillo parlante di un altro nuovo movimento, è diventato in poco tempo il primo partito siciliano: i siciliani, proprio per ribellarsi a una stanchezza di secoli sono e sono stati pronti a lasciarsi sedurre dal primo Garibaldi di turno, salvo poi ripiombare nell’accettazione passiva del tutto e nella persistenza della stagnazione: comunque non si tratta di non credere nel futuro, ma di affidarsi nelle mani di qualcuno che possa operare al tuo posto.
Ma c’è un altro elemento linguistico degno di attenzione: in siciliano non si ricorre al passato prossimo, a parte in alcune aree particolarmente della Sicilia orientale, o in alcune circostanze di forte vicinanza cronologica del fatto o del momento di riferimento, o in recenti evoluzioni linguistiche in cui si traduce dall’italiano. In genere si usa il passato remoto, anche per dire che “stamatina mi pigghiai u cafè”, oppure: “u sai cu muriu?”. In realtà si tratta del tempo “perfetto” usato dai Latini (da perficere, compiere), ed ereditato direttamente. Secondo l’Enciclopedia Treccani il passato remoto serve a “indicare un fatto avvenuto nel passato, concluso e senza legami di nessun tipo con il presente”, ma anche privo di effetto o coinvolgimento emotivo su chi parla, cosa che invece si riscontra nell’uso del passato prossimo. Il citato Baiamonte ne conclude che (Cademia Sicilia 22.3.2018) non esisterebbe pertanto il passato remoto, ma solo il passato nel suo originario uso: la cosa sembra una forzatura logica, poiché il “perfectum” ha anche le caratteristiche del passato remoto. Anche qua la spiegazione non si distacca molto da quella di prima. Non c’è il futuro e non c’è il passato vicino, anzi questo, una volta che è passato è già lontano, C’è solo il presente che scorre nella sua quotidianità.
I Siciliani sembrano avere studiato e fatta propria la concezione del tempo di Sant’Agostino: il passato non esiste, poiché è ciò che non è più, il futuro è ciò che non è ancora e il presente è l’attimo che fa diventare passato il futuro. Dio è eterno presente ed è fuori da queste combinazioni tipicamente umane. C’è da chiarire se il presente è un limbo o se è l’attimo fuggente che bisogna saper cogliere non quando si presenta, ma in ogni attimo dell’esistenza. Il tempo come dimensione psicologica equivale a dire che l’unico tempo esistente è quello pensato, ossia esperito dalla coscienza di un individuo. Si potrebbe concludere che siamo davanti al solito “carpe diem”, che comunque per i siciliani è meno godereccio di quello oraziano, poiché la condizione sociale ed economica degli abitanti di gran parte dell’Isola non consente particolari godimenti, il futuro si contorna di incertezze, il passato di ombre dolorose.
Montale non era siciliano, ma nel suo rapporto con il Mediterraneo, che è il lago dove si diluisce la cultura di tanti popoli ha tracciato lucidamente questa condizione di un tempo che si scioglie e che svanisce con le sue incertezze e con le sue illusioni:

“Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tòcche radure ci addurrà
dove mormori eterna l’acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino…..
….Oh la favola onde s’esprime
la nostra vita, repente si cangerà
nella cupa storia che non si racconta!".
(Ossi di seppia)

La “cupa storia che non si racconta” è il passato con la sua scia di sangue e di violenza con il quale il siciliano è abituato a convivere e che vorrebbe volentieri gettarsi alle spalle: e poiché il presente, nella lettura agostiniana non esiste, si apre uno spazio possibile che può essere “vita adesso” o suo degenerare nel sonno di cui parla il Gattopardo: “Il sonno è ciò che i siciliani vogliono, ed essi odieranno sempre chi li vorrà svegliare, sia pure per portare loro i più bei regali….tutte le manifestazioni siciliane sono manifestazioni oniriche, anche le più violente: la nostra sensualità è desiderio d’oblio le schioppettate e le coltellate nostre, desiderio di morte; desiderio di immobilità voluttuosa, cioè ancora di morte, la nostra pigrizia i nostri sorbetti di scorsonera o di cannella, il nostro aspetto meditativo è quello del nulla che voglia spiare gli enigmi del nirvana…”. (Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo”).
Alla fine Sciascia si ripresenta nella sua capacità di individuare il coacervo di contraddizioni nel quale si configurano le “mille Sicilie” di Bufalino, l’impossibilità di tracciare un’identità ben precisa, l’incompletezza di ogni linea d’analisi, davanti alla complessità sedimentata da secoli d’incontro tra culture diverse. E quindi un futuro che non c’è, ma c’è, un passato che sembra rimosso ma che resiste nei rivoli della memoria.

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