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E' notizia dei giorni scorsi che il gup di Messina, Fabio Pagana, ha condannato a un anno, pena sospesa, per abuso d'ufficio, l'ex procuratore di Ragusa e poi procuratore aggiunto di Catania Carmelo Petralia. Secondo l'accusa, avrebbe volontariamente omesso di indagare su un amico, l'imprenditore Giovanni Giudice, non esercitando per 6 anni l'azione penale e facendo prescrivere così l'inchiesta a suo carico. Giudice era indagato per reati fiscali relativi a false fatturazioni.
L'allora procuratore di Ragusa, che non si astenne nonostante i rapporti di frequentazione con l'indagato, dal 2011, data dell'informativa di polizia giudiziaria che segnalava i presunti reati fiscali, fino al 2017 non avrebbe neppure fatto una delega di indagine, così determinando la prescrizione delle accuse. 
L'indagine, nata a Catania, venne poi trasmessa a Messina per competenza. Il pm del processo, che si è svolto in abbreviato, è Antonio Carchietti. Il procedimento è stato coordinato del procuratore di Messina Maurizio de Lucia. Petralia si è difeso sostenendo che non c'era alcun obbligo di astensione nonostante ci fossero rapporti con l'indagato e che le intercettazioni prodotte dai pm sarebbero state inutilizzabili, ma nel corso dell'interrogatorio reso si è difeso anche sul merito delle conversazioni intercettate.
Abbiamo ricevuto, e pubblichiamo, anche una nota della figlia del Procuratore in cui si contestano alcuni elementi che erano stati pubblicati dal quotidiano La Sicilia ed in particolare come la stessa risposta di Petralia, dopo la condanna, non è stata pubblicata. 

Il comunicato di Flavia Petralia
È recente la notizia della condanna a un anno per abuso d’ufficio per l’ex procuratore Carmelo Petralia. Eppure, mentre gran parte delle testate giornalistiche si affrettano a dar comunicato con tempistiche a dir poco sorprendenti, la risposta del Procuratore pubblicata il giorno dopo sul quotidiano La Sicilia, resta silente. Che ci sia una volontà precisa di non sollevar dubbi non posso stabilirlo io, ma sono comunque convinta che non esista bilancia con il piatto posto da un lato solo.
Nella precisazione che il dott. Petralia ha tenuto a sottolineare al quotidiano della sua città, non era certo l’errore commesso dal giornalista (che aveva scritto 2 anni di condanna invece di uno) a dover creare dubbi, curiosità e forse anche un po’ di rabbia, ma il contenuto chiaramente espresso per punti, uno più grave fra tutti: “L’indagine è partita da un falso dossier”.
Cito testualmente la risposta di Carmelo Petralia:
“Due anni o un anno, in fondo, fanno poca differenza di fronte alla gravità di un’accusa e al male che ne deriva. Comunque era “un anno”, come peraltro poi riportato nel testo dell’articolo. Per ristabilire la verità storica e soprattutto a beneficio di quelli (vi rientro purtroppo anch’io) che spesso leggono solo i titoli, questo potrebbe bastare. Ma il quotidiano della mia città, per farsi perdonare quel piccolo momento di trascuratezza, deve permettermi di sottrarmi all’etica del bravo condannato che dice “ricorrerò in appello e verrà ristabilita la verità”.  Quel che per me conta, in questo momento, è ben altro e, per quel che vale - assumendomene obviously la responsabilità - lo sintetizzo in due punti: 1. Non contesto il lavoro che è stato diligentemente svolto dalla Procura di Messina. Come ho detto più volte, io non sarei stato capace di fare meglio. In punto di fatto e in punto di diritto ovviamente vediamo la vicenda in modo diametralmente opposto. Ma da PM ne apprezzo comunque la correttezza e (fa parte del mestiere) l’abilità. Mi offende, invece, il fatto che tutto abbia preso inizio dall’acquisizione in un fascicolo processuale della Procura di Catania di un dossier rivelatosi falso. Non posso andare oltre, ma diciamo subito che, se quanto riportatovi fosse stato vero, sarebbe stato in astratto possibile sospettare una mia condiscendenza (anche giudiziaria) nei confronti di un imprenditore del Ragusano. Ho chiesto inutilmente già tre anni fa che venisse accertato chi e come avesse introdotto un tale documento. Continuo a non saperlo, ma in compenso, esaminando ora gli atti, ho visto come la Procura di Catania, muovendo proprio da quel documento aveva svolto e delegato indagini su di me e su miei familiari. La Procura presso cui io prestavo servizio in quel momento, la Procura in cui tantissimi anni prima avevo iniziato a fare il PM, la Procura con cui avevo collaborato per anni come sostituto Procuratore Nazionale Antimafia, la Procura con cui mi ero infine relazionato senza contrasti, come procuratore della Repubblica a Ragusa, nei tanti casi (narcotraffico, immigrazione clandestina ad es.) in cui potevano porsi dubbi sulle rispettive competenze. La Procura che, tutte le volte che l’avevo lasciata per assumere altre funzioni, mi aveva dato per viatico i pareri elogiativi ma soprattutto affettuosi dei procuratori capo del momento. Questa stessa Procura aveva svolto indagini su di me mentre ne facevo parte. 2. Il secondo punto è molto più misero, ma mi ha offeso ugualmente. Si risolve in una domanda: ma è mai possibile che, proprio mentre una riforma legislativa sta cercando di razionalizzare il rapporto magistratura – media (e, sia chiaro, sono critico anch’io su qualche aspetto di questa riforma), solo un’ora dopo la pronuncia di una sentenza in camera di consiglio – quindi un un’udienza senza presenza di pubblico – i media online già ne pubblicassero tutti i dettagli con in bella evidenza anche il nome del giudice che l’aveva pronunciata. Non c’erano certamente obblighi di riservatezza processuale e non credo che vi siano profili di illecito. Ma mi è sembrata una bella caduta di stile!”.

Foto © Imagoeconomica

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