Dieci anni fa gli italiani votarono per la gestione pubblica dell’acqua, ma il referendum è stato boicottato da tutti i governi che si sono succeduti
Sabato 12 giugno si è svolta a Roma la manifestazione nazionale per il decennale del referendum del 2011: con il quorum del 54% e il 94% dei sì, nel 2011, 27 milioni di italiani votarono per la gestione pubblica del servizio idrico. Trascorsa una settimana i movimenti si riorganizzano per riprendere la battaglia.
L’Italia è stato l’unico paese in Europa a tenere un referendum sull’acqua. Ricordiamo che il referendum è uno strumento di esercizio della sovranità popolare, il cui esito, verificato tramite decreto del Presidente della Repubblica, vincola i legislatori.
Come mai, allora, sono trascorsi dieci anni e non abbiamo ancora una legge che tuteli, governi e gestisca le acque secondo quanto espresso della volontà popolare nel giugno 2011?
È passata tanta acqua sotti i ponti. La lotta per la ripubblicizzazione dell’acqua non è di breve corso. Al referendum si giunse attraverso un vivace percorso di piazza e di analisi che culminò nel 2007 con una proposta di legge di iniziativa popolare che raccolse più di 400mila firme e fu preliminare alla stessa vittoria referendaria. I movimenti per l’acqua imposero all’attenzione di tutti un discorso non retorico sulla tutela dell’acqua e della sua qualità: si chiedeva allo Stato un servizio idrico integrato e gestito con strumenti di democrazia partecipata.
A seguito del referendum del 2011, l’intergruppo parlamentare “Acqua Bene Comune” depositò presso la Camera dei Deputati il testo aggiornato della legge. Restò tutto fermo fino al 2018, quando la Camera attribuì carattere di urgenza alla proposta di legge, ciò malgrado l’iter fu rallentato l’anno successivo quando furono avanzati 230 emendamenti che ne avrebbero stravolto i contenuti della legge. La proposta di iniziativa popolare - lo ricordiamo - prevede di liquidare gli azionisti privati e di trasformare la natura di tutte le società, attualmente di diritto privato, in enti di diritto pubblico Nella primavera del 2019, fu chiesta al Governo una relazione tecnica sull’impatto economico della ripubblicizzazione del servizio idrico. Secondo Utilitalia, l’associazione dei gestori, questa riforma costerebbe 15 miliardi. La stima effettuata dai movimenti per l’acqua pubblica, a proposito dei costi inziali, si aggira invece tra 1,5 e 2 miliardi. La relazione tecnica, ad ogni modo, non è mai pervenuta, però blocca lo stato di avanzamento dei lavori.
MicroMega arriva a Roma anche passando per la Campania, affrontando il tema dell’acqua pubblica nella realtà delle comunità regionali e, in particolare, viaggiando con Retecivica No Gori, la quale ci mostra come l’accesso universale a un diritto primario si attui attraverso questioni concrete, di impatto anzitutto locale: «Chiedemmo e ottenemmo una esaustiva relazione a cura dello studio legale Clarich, al fine di valutare eventuali o potenziali difficoltà di riorganizzazione del servizio idrico integrato: sappiamo, quindi, che la strada che indichiamo è effettivamente percorribile. In Campania, la Gori è l’spa che “serve” 76 comuni del distretto sarnese-vesuviano, che interessa grossomodo 1 milione e mezzo di abitanti. Abbiamo le tariffe più alte della regione e non si contano distacchi di utenze anche nei confronti di cittadini in difficoltà. Sebbene gli aumenti tariffari siano stati autorizzati perché le reti fossero ammodernate e le perdite di acqua contenute, non possiamo vantare alcuna efficienza o qualità» (Claudio Pagano, Rete civica No Gori).
La ripubblicizzazione, d’altra parte, è promossa da svariati organismi internazionali, dalle norme europee e persino dalla nostra stessa Costituzione, all’art. 43. Cos’ha di tanto appetibile allora il meccanismo della privatizzazione?
Le società che gestiscono i servizi idrici italiani sono società per azioni miste. Gli utili sono divisi tra gli azionisti e non esiste obbligo di investimenti nella rete. Arera, che stabilisce le tariffe per i gestori, ha sostituito la “remunerazione del capitale investito” con gli “oneri finanziari del gestore”: in tariffa, cioè, confluiscono costi come i conguagli e la morosità che producono ricavi altissimi. Mentre le bollette aumentano, la qualità della gestione cala: le perdite di acqua, secondo i dati dell’Istat, si aggirano attorno al 42%, l’investimento nelle reti idriche cala, il 91% degli utili è distribuito tra gli azionisti. Proprio in avversione a questo sistema, quindi, gli italiani votarono per la gestione pubblica dell’acqua: lo scopo non era risparmiare, era soprattutto impedire che la tariffa comprendesse la remunerazione del capitale investito dal gestore, ovvero contrastare una ingiustizia etica.
Il referendum del 2011 è stato boicottato da tutti i governi che si sono succeduti, da Berlusconi passando per Roberto Fico, che aveva addirittura dichiarato che avrebbe legato la sua presidenza la ripubblicizzazione dell’acqua: a riscontro della solenne promessa, la proposta di legge depositata da Federica Daga, che eredita la proposta di iniziativa popolare di cui abbiamo parlato, giace da anni in commissione Ambiente: «Questa legge ha obiettivi etici: oltre che riportare le competenze sul servizio idrico al ministero dell’Ambiente, ad agire contro le perdite e il dissesto idrogeologico, questa legge vuole garantire il principio di solidarietà e di tutela delle fonti primarie. Con il surriscaldamento del pianeta, l’acqua diventa sempre più scarsa e sempre meno accessibile ai poveri. Ben otto milioni all’anno di persone muoiono per questo. È inaccettabile che l’acqua sia quotata in borsa come se fosse una merce!» (padre Alex Zanotelli)
Iniziative, dibattiti e presidi si sono susseguiti in moltissime regioni italiane prima dell’appuntamento fissato a Roma lo scorso sabato e ne seguiranno altri. L’anniversario del referendum tradito è, infatti, solo un pretesto simbolico per fare il punto della situazione. Oggetto delle critiche odierne è il Piano nazionale di ripresa e resilienza del governo Draghi che finisce coll’ostacolare ulteriormente l’adempimento del referendum del 2011 per mezzo di politiche che incoraggiano le privatizzazioni. L’attuale Recovery Plan destina alcuni fondi all’ammodernamento delle reti, ma in misura ampiamente inferiore al necessario. Per il dissesto idrogeologico stanzia 3,6 miliardi contro i 26 quantificati come necessari dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Inoltre conferma il modello delle società per azioni che producono utili, anzi allarga le competenze delle solite grandi aziende multiservizi quotate in borsa, che gestiscono servizi fondamentali come l’acqua, i rifiuti, la luce e il gas.
I comitati e i movimenti che lo scorso sabato si sono incontrati a Roma hanno già ripreso le attività quotidiane. Rete civica No Gori riprende infaticabile l’azione di contatto e pressione sulle amministrazioni pubbliche, allargando la rete dei comitati ad altri comuni, fornendo assistenza ai cittadini, ma soprattutto trasferendo le esperienze territoriali allo spazio del dibattito politico: «Il diritto dell’uomo all’acqua e ai servizi idro-sanitari è sancito dall’ONU, ma se la legislazione Europea e quelle nazionali non esplicitano tale diritto in modo inequivocabile, come possiamo rivendicarne il rispetto nelle nostre comunità? Si rende necessaria la lotta, se siamo ancora in una fase in cui questo diritto non va semplicemente difeso, ma proprio riconosciuto» (Claudio Pagano, Rete civica No Gori).
(18 Giugno 2021)
Tratto da: micromega.net