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L’11 maggio di 10 anni fa, veniva firmata la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, detta anche Convenzione di Istanbul. Quest’ultima venne in effetti inaugurata in occasione della 121° sessione del Comitato dei Ministri presso la città turca. I lavori del Comitato Ad Hoc per prevenire e combattere la violenza contro le donne e la violenza domestica erano cominciati solo tre anni prima. La Convenzione è entrata in vigore il 1° agosto 2014, poco dopo la ratificazione di Andorra, decimo paese ad unirsi al trattato internazionale. Oggi i paesi ratificatori sono 33, mentre sono ancora 6 i paesi membri solo firmatari. Oggi, la Convenzione costituisce uno strumento fondamentale in tribunale e senza precedenti in materia di violenza contro le donne. O almeno, lo farebbe se venisse applicata ed utilizzata concretamente. Nonostante, infatti, gli importantissimi spunti che contiene, non si può davvero dire che abbia ottenuto il riscontro che ci si aspettava. La maggior parte dei tribunali fa ancora molta difficoltà ad integrare il trattato nelle proprie valutazioni, a causa di una mentalità che non può essere superata solo grazie alla legge, ma deve essere affrontata nella dimensione sociale e culturale.
Scalpore ha fatto l’uscita dalla Convenzione della Turchia nel marzo 2021. Il presidente Erdoğan ha motivato la sua scelta accusando la Convenzione di indurre “al divorzio e all’omosessualità” e, quindi, di minare i valori della famiglia tradizionale. Inoltre, secondo il presidente, le leggi interne sarebbero più che sufficienti a proteggere le donne turche. Questa sicurezza sembra essere però smentita dai dati dell’OMS, secondo i quali circa il 40% delle donne turche è vittima di violenza da parte del proprio partner.
Alla decisione della Turchia ha fatto seguito la Polonia, ritiratasi appena l’anno scorso dalla Convenzione, dopo avervi aderito nel 2015. 
Il ministro della Giustizia Zbigniew Ziobro, che ha annunciato l’uscita, ha affermato in effetti che il trattato “è ispirato dall'ideologia di genere e dalla lobby Lgbtq” e ha ritenuto la Convenzione superflua: Ziobro, infatti, ha dichiarato che “la Polonia dispone di leggi che proteggono adeguatamente le donne dalla violenza”. Eppure sono stati gli stessi media polacchi a voler ricordare al proprio governo che le donne vittime di violenza domestica sono 400, se non addirittura 500, ogni anno.
La Convenzione si compone di 12 capitoli, per un totale di 81 articoli. Si apre con 6 articoli introduttivi, che comprendono gli obiettivi del trattato. In questo primo capitolo si trova, inoltre, la prima definizione contenuta in un trattato internazionale del termine “genere”, ossia “ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Seguono altre definizioni di espressioni come “violenza nei confronti delle donne”, “violenza domestica” e “violenza contro le donne basata sul genere”. Quest’ultime definizioni possono rappresentare un’importante chiave processuale per le donne vittime di violenza che chiedono giustizia.
In Italia, invece, la ratifica è stata approvata all’unanimità e convertita in legge nel 2013, anche se sembra non avere ancora avuto i risultati sperati. Infatti, secondo il rapporto del 2018 “Attuazione della Convenzione di Istanbul in Italia. Rapporto delle associazioni di donne”, la cui realizzazione è stata coordinata da DiRe - Donne in Rete contro la violenza, “se il dato normativo formale in Italia ha avuto sviluppi concreti, lo stesso purtroppo non può dirsi per tutto ciò che è necessario per garantire l’implementazione efficace delle norme”. “Nel loro percorso, infatti, - continua - le donne, trovano ancora troppi ostacoli sia con le forze dell’ordine, che con professionisti/e dell’ambito sociale e sanitario, dovuti ancora a scarsa preparazione e formazione sul fenomeno della violenza, ma soprattutto al substrato culturale italiano, caratterizzato da profondi stereotipi sessisti e diseguaglianze tra i generi.” Anche i dati più recenti hanno confermato questa triste panoramica. Dall’inizio del 2021, sono state 38 le donne vittime di violenza. Numero esorbitante, che include soggetti di età molto varia. Il caso che salta più all’occhio è quello di Sharon Barni, bambina di appena 18 mesi, morta per le conseguenze di maltrattamenti domestici. Neppure la politica si è rivelata all’altezza della situazione, evitando di “dare un forte segnale di potenziamento di tutti gli strumenti possibili per combattere la violenza contro le donne, supportandoli con i necessari finanziamenti e progetti economici a lungo termine.” La Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica racchiude una serie di riflessioni e di norme cruciali per la liberazione della donna, a partire dall’individuazione di un’origine storica del sistema patriarcale che alimenta la violenza contro le donne. Ma questi formidabili presupposti non vengono purtroppo utilizzati nella misura necessaria. Sono ancora troppi i casi di violenza in cui la vittima non viene protetta: la donna in effetti non viene accompagnata né supportata nel percorso di denuncia e quindi non riesce mai, se non in rari casi, a ricevere giustizia. E questo quadro non è ammissibile in un paese che si dichiara civile e democratico.

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