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Una riflessione fuori dal coro

Da alcuni anni è in atto fin troppo scopertamente un attacco alle misure di prevenzione antimafia derivate dalla Legge Rognoni-La Torre: il tentativo è quello di smantellare le misure di prevenzione patrimoniali, fortemente volute da Rocco Chinnici e Pio La Torre e introdotte nel nostro ordinamento il 13 settembre 1982. Si tratta di uno strumento particolarmente innovativo ed efficace contro mafie e sistemi criminali che prevede un vero e proprio “binario parallelo” indipendente rispetto al procedimento penale, pensato per colpire specificamente l’accumulazione illecita di ricchezze e il flusso di capitali negli sconfinati canali del riciclaggio.

La recente pubblicazione della relazione conclusiva dell’inchiesta sui beni confiscati e sequestrati della commissione antimafia dell’Ars Sicilia, ed altre inchieste giornalistiche, hanno acceso i riflettori sul sostanziale malfunzionamento “a valle” del sistema delle confische.

Sarebbe una colpa inescusabile per chi crede nella lotta alla mafia presa sul serio quella di nascondere la testa sotto la sabbia, sia sull’attacco profondo alla normativa proveniente dalla borghesia mafiosa e da importanti centri di potere economici, sia sugli altri gravissimi fenomeni riscontrati, che per sovrammercato rischiano di poter essere usati per delegittimare tutta la normativa.

Proprio per questo, a nostro avviso, è necessario mettere a fuoco, almeno per cenni, quello che è uno degli aspetti centrali del problema, anche a costo di mettere in discussione una parte dell’ideologia sbagliata e fuorviante che, probabilmente non innocentemente, è stata diffusa in modo capillare nel corso degli ultimi anni.

Nei procedimenti di prevenzione si possono riscontrare due tendenze di fondo che si sono progressivamente ampliate negli ultimi anni e di cui bisogna cogliere la profonda interconnessione. La prima è quella per cui i destinatari delle misure di prevenzione antimafia, cui in genere non mancano le risorse per la tutela legale dei propri interessi, ormai impugnano sotto ogni profilo possibile i provvedimenti di sequestro e chiedono complesse e lunghe perizie, con il risultato che i tempi che vanno dal sequestro al decreto definitivo di confisca - quello a partire dal quale i beni si considerano acquisiti al patrimonio dello Stato - passano molti anni. L’altra tendenza è l’allargamento a dismisura del ruolo previsto per le amministrazioni giudiziarie, che sono incaricate di gestire il patrimonio sequestrato fino al momento della pronuncia definitiva della magistratura. Anche quest’ultimo caso segna una forte rottura rispetto al periodo iniziale dell’entrata in vigore della Rognoni-La Torre, in cui si prendeva atto in tempi rapidi dello stato di decozione delle aziende non recuperabili (la stragrande maggioranza dei casi) e si arrivava alla conseguente dichiarazione di fallimento.

Un passaggio decisivo nell’affermazione della centralità delle amministrazioni giudiziarie è stata l’approvazione del nuovo “codice antimafia” voluto dal governo Berlusconi IV e, in particolare, dall’allora Ministro della Giustizia Angelino Alfano. In quel decisivo frangente si è ampliato il compito degli amministratori giudiziari, da quello di una mera “gestione conservativa” del patrimonio in attesa della definizione del procedimento a quello di una vera e propria “gestione” dell’azienda, scelta motivata adducendo la necessità di mantenere la posizione nel mercato dell’azienda sequestrata e i livelli occupazionali. Si è quindi diffusa, sia sul piano giuridico che su quello dell’immaginario collettivo, la suggestione a nostro avviso fuorviante e pericolosa, per cui le aziende sequestrate potrebbero essere “amministrate” come delle normali aziende e perfino facilmente “ripulite” dalle “infiltrazioni mafiose”.

Siamo costretti a porci una domanda fondamentale: le aziende sequestrate sono delle normali aziende che necessitano prevalentemente di essere gestite in modo competente? La risposta, ovviamente fatte le opportune distinzioni a seconda dei casi, non può che essere un NO scritto a caratteri cubitali: le aziende che utilizzano capitali illeciti costituiscono un mondo a parte e andrebbero invece tolte immediatamente dal mercato.

Un’azienda legata al sistema dell’economia mafiosa, tranne rarissimi casi che non fanno testo, è un’impresa in cui tutto è pensato in funzione del riciclaggio e dell’interazione con il sistema economico e politico criminale: i dipendenti, ad esempio, soprattutto quelli che ricoprono ruoli nevralgici, è prevedibile che saranno soggetti contigui all’associazione mafiosa o comunque proni alle sue direttive; i fornitori saranno fornitori di un certo tipo, e via esemplificando.

Con la cesura del sequestro, notoriamente, si interrompe immediatamente il “core business” economico delle imprese (legato in genere al riciclaggio e a finalità estrinseche alla pura attività imprenditoriale) e il relativo “doping” indotto - che comporta inoltre l’esercizio di una concorrenza sleale verso le altre aziende sane sul mercato, all’interno di un sistema economico-sociale pesantemente condizionato dalla presenza mafiosa.

Ricapitoliamo. Con le amministrazioni giudiziarie implementate nel 2011 da Alfano ci troviamo quindi di sempre più di fronte al fenomeno di vere e proprie aziende “zombie”, che rimangono in vita per molti anni senza alcuno scopo utile, e che, in genere, alla fine falliscono. Offrendo così una duplice opportunità alla mafia: di provare a influire e possibilmente orientare l’attività degli amministratori giudiziari secondo i propri interessi - cosa che non è affatto impossibile sotto il profilo logico visti i rapporti di forza in gioco e che in alcuni casi si è già verificata - nel tentativo di svuotarle definitivamente di qualsiasi bene di pregio o di continuare ad utilizzarle surrettiziamente. Ed infine - ciliegina sulla torta - giunti all’inevitabile fallimento, di dare la colpa “allo Stato” e “alla legislazione antimafia che danneggia l’economia”, con un completamente immotivato e fuorviante spot pubblicitario offerto a mafiosi e prestanomi “insospettabili” dal colletto bianco. Certo, nelle amministrazioni giudiziarie c’è anche molto torbido, ma è illogico e perfino risibile pensare che tutto ciò avvenga e sia avvenuto a discapito della mafia.

Secondo noi è del tutto illusorio pensare che la soluzione del problema consista solo in un miglioramento, pure necessario ed improcrastinabile, della qualità e della trasparenza delle amministrazioni giudiziarie - mentre non prendiamo neppure in considerazione perché puramente provocatoria ed offensiva per chi ha perso la vita perché voleva estirpare la mafia, l'"idea geniale" di lasciare le aziende in mano ai soggetti sospettati di collusioni economiche con la mafia.

Si dovrebbe invece pensare, già al momento del sequestro, tranne per quei rari casi in cui vi sia un “valore” da conservare, a prevedere immediatamente dopo il sequestro un “check” dell’azienda volto ad individuarne e segnalarne alla magistratura tutti i possibili profili di irregolarità penale ed amministrativa, con pene molto pesanti in caso di omissione, e a definirne le reali condizioni economiche, per poi procedere alla immediata liquidazione delle stesse, salvandone il valore capitalizzabile, che in caso di confisca definitiva andrebbe allo Stato, mentre in caso di vero errore giudiziario (comunque riguardante rarissimi casi di scambio di nome o di clamoroso errore materiale) potrebbe essere restituito ai proprietari.

In questo modo si eviterebbero le lunghissime, opache e comunque costose amministrazioni giudiziarie, si eliminerebbe alla radice la possibilità di un influsso della mafia nella gestione delle aziende sequestrate e si toglierebbe alla mafia uno spot che, a voler pensar male, sembra costruito su misura per aumentane il consenso popolare; si toglierebbero dal mercato, last but not least, aziende che hanno fatto concorrenza sleale alle aziende sane danneggiando l’economia reale.

Prendendo atto di quello che è un dato di fatto innegabile con il quale troppo spesso ci si rifiuta di fare i conti: se un’azienda esiste per riciclare denaro sporco, è giusto e necessario che chiuda; se un’azienda fornisce un bene o servizio di cui c’è richiesta in un determinato luogo, con la perdita di quei posti di lavoro si apriranno nuove opportunità per altre aziende non colluse e quindi per un livello almeno equivalente (se non superiore) di occupazione, stavolta, se l’impresa non è degli amici degli amici, reale e senza “effetti collaterali”.

Ha scritto recentemente a questo riguardo un magistrato autorevole come il Dott. Sebastiano Ardita delle parole chiarissime: «I detrattori della legislazione antimafia sostengono che essa mette in ginocchio l’economia; le famiglie mafiose diffondono nella subcultura su cui hanno presa l’idea che lo Stato fa perdere posti di lavoro. Non è facile spiegare il rapporto tra economia e mafia con riguardo all’interesse immediato dei cittadini. Se un supermercato è gestito dalla mafia, la ricchezza che produce è solo apparente ed è legata al patrimonio di capitale e lavoro che opera secondo lo schema generale: posti di lavoro e acquisti dei cittadini che producono ricchezza. In realtà esiste anche un sommerso invisibile. La mafia ricicla denaro, provento di altre attività illecite, spesso lesive della libertà di mercato (come le estorsioni ai danni di aziende che partecipano ad appalti). Ed utilizza il denaro prodotto per investire in nuovi delitti. Inoltre può operare con sleale concorrenza mettendo fuori dal mercato altre aziende e provocando la perdita di altri posti di lavoro. Ma tutto ciò rimane sommerso. Se mai potessimo quantificare i danni, non solo sociali, ma anche economici che produce il supermercato (danni provenienti dai reati che lo finanziano, o dai reati in cui reinveste; costi per attività di polizia, processi e indagini; fallimenti di aziende sane per concorrenza sleale, con perdita di posti di lavoro) certamente ci accorgeremmo che sono superiori alla ricchezza apparente in termini di prodotto lordo e di posti di lavoro che produce».

Di questo si dovrebbe discutere, a meno che, ovviamente, il polverone dei beni confiscati non sia unicamente finalizzato a costruire un pretesto per mettere mano alla legge e svuotare la legge nel punto che davvero è indigesto al potere italiano - il sequestro di prevenzione - per lasciare le aziende alla gestione della mafia. Magari dell’alta mafia, quella con il colletto bianco vicina al gruppo di Matteo Messina Denaro, che ha studiato nelle nostre stesse scuole e che ha dismesso da tempo coppola e lupara, perché crede oggi negli affari e nel potere corruttivo del denaro.

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