MILANO. La sentenza definitiva del processo dell’Utri spiega molti dettagli sugli attentati mafiosi di via Rovani. Ma, dopo 34 anni da quel novembre 1986, resta ancora il mistero del ruolo di Riina e di quello ‘strumentale’ dei catanesi
Due bombe, una nel ’75 e una nell’86. Due presunti autori per altrettanti presunti ‘incidenti’. Sarebbe troppo definirli attentati, considerato come vengono recepiti dal loro destinatario. O almeno, così si evince dal clima che si respira ad Arcore il 29 novembre 1986.
È da poco passata la mezzanotte quando l’imprenditore Silvio Berlusconi telefona a Marcello Dell’Utri, dal 1982 amministratore di Publitalia, la società concessionaria dei servizi di raccolta pubblicitaria per conto del Gruppo Mediaset.
La procura di Milano, che sta indagando sui rapporti tra Dell’Utri e lo ‘stalliere’ di Arcore Vittorio Mangano (arrestato nel 1980 e in seguito condannato nell’ambito della maxi-inchiesta condotta da Giovanni Falcone sul traffico internazionale di eroina e morfina base tra boss del calibro di Stefano Bontate, Salvatore Inzerillo, Rosario Spatola e la famiglia Gambino di New York), intercetta la conversazione. È Berlusconi a dire fuori dai denti, a poche ore dall’esplosione, quello che già si sospettava: Mangano ha colpito ancora, dopo l’ordigno piazzato il 26 maggio 1975 nella stessa Villa di via Rovani, a Milano, il cui scoppio aveva causato ingenti danni ai muri d’ingresso e al pianerottolo interno.
O, perlomeno, ai due questo fatto appare pacifico. «E questa cosa qui - spiega Berlusconi - da come l’hanno fatta, con un chilo di polvere nera, fatta con molto rispetto, quasi con affetto. Ecco: un altro manderebbe una lettera o farebbe una telefonata: lui ha messo una bomba».
Stavolta, poi - a differenza di undici anni prima - «fatta proprio rudimentale… con molto rispetto... perché mi ha incrinato soltanto la parte inferiore della cancellata, un danno da duecentomila lire... quindi - rimarca - una cosa rispettosa e affettuosa». All’altro capo del telefono, Dell’Utri ride. I dubbi iniziali sono solo di circostanza.
«Non c’è altra spiegazione - conclude il Cavaliere - è la stessa via Rovani come allora». «Sì, sì... Adesso vediamo...» replica Dell’Utri. «Comunque, credo anch’io che non ci sono altre richieste. Anche perché non ci sono, voglio dire. Si sarebbero fatti sentire, insomma, no?».
Intanto, nella conversazione interviene anche Fedele Confalonieri. Tutti e tre danno per appurato anche il fatto che Mangano sia «fuori». Cosa che si rivelerà inesatta: nel novembre 1986 Mangano è in carcere. Non può essere stato lui a piazzare la bomba. Ma sono quelle “altre richieste” e quel “farsi sentire” cui allude Dell’Utri nella conversazione a richiamare, in tutta la sua portata, il patto stipulato tra Berlusconi e Cosa Nostra con la mediazione dello stesso manager palermitano per il periodo tra il 1974 e il 1992 - come confermato da una sentenza definitiva di condanna della Corte di Cassazione (la n. 28225 del 2014) nei confronti di Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Una sentenza che si rivela fondamentale anche per comprendere cosa ci sia dietro le bombe di via Rovani. A cominciare dalla disponibilità di Berlusconi «a versare anche trenta milioni di lire - scrivono i giudici - qualora contattato telefonicamente» in seguito all’attentato.
Senonché proprio Dell’Utri il 30 novembre 1986 tranquillizzerà Berlusconi «dicendogli di aver parlato con “Tanino”». Ovvero Gaetano Cinà, amico di vecchia data di Dell’Utri, ritenuto un esponente di spicco della famiglia Malaspina, vicino ai boss Stefano Bontate e Mimmo Teresi, nonché mediatore nel trasferimento di Mangano e della sua famiglia presso Villa San Martino ad Arcore.
In realtà, la ricostruzione dei fatti - così come confermata dalle dichiarazioni concordi dei pentiti - ha indotto i giudici della prima sezione della Cassazione a ritenere che l’attentato del novembre 1986 fosse riconducibile a esponenti di spicco mafia catanese. A deporre in questo senso sono, in particolare, le parole del collaboratore Antonino Galliano, legato dal 1986 alla famiglia mafiosa della Noce e nipote di Raffaele Ganci (membro della commissione provinciale e vicinissimo a Totò Riina). Quelli - non bisogna dimenticare - sono gli anni in cui il Gruppo Fininvest sta espandendo il proprio controllo su decine di emittenti private su scala nazionale (rilevanti gli acquisti di Telemilano, poi Canale 5, tra il 1979 e il 1980, di Italia 1 nel 1981, del 50% di Rete 4 nel 1984), dopo che Dell’Utri, in qualità di consigliere delegato di Publitalia ’80, ha chiesto a Cinà di «occuparsi della “messa a posto per l’installazione delle antenne televisive”».
Ma sono anche anni di mutamento negli equilibri interni a Cosa Nostra, dopo l’uccisione di Bontate e Teresi a colpi di ‘lupara bianca’ (è il 1981). Da quel momento a comandare è Totò Riina, mentre uno dei fratelli Pullarà diventa reggente provvisorio della famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù. Una delle famiglie con cui Berlusconi, per il tramite di Dell’Utri, ha siglato nel 1974 - a detta dei giudici - un «accordo di protezione mafiosa», ossia di vera e propria «schermatura rispetto ad iniziative criminali (essenzialmente sequestri di persona) che si paventavano ad opera di entità delinquenziali non necessariamente e immediatamente rapportabili a “Cosa nostra”», in cambio di periodiche corresponsioni di «proventi economici» diretti alla «realizzazione dell’evento del finale rafforzamento di “Cosa nostra”» stessa.
Con l’avvento dei Pullarà, però, comincia ad aversi qualche attrito. «Con riferimento al periodo 1984-1985» si legge nella sentenza - in accordo con le dichiarazioni del pentito Calogero Ganci - Dell’Utri «nell’effettuare i pagamenti, si era detto “tartassato” dai fratelli Pullarà», i quali «avevano iniziato a riscuotere le somme, prima percepite da Bontate». Di qui i lamenti manifestati a un summit mafioso dell’86 da Cinà, il quale - secondo Galliano - «non voleva più recarsi a Milano a riscuotere, per conto di “cosa nostra”, le somme da Dell’Utri, dato che quest’ultimo era divenuto con lui scostante».
Il rapporto fra Dell’Utri e Cinà - lo conferma nel processo a carico del primo una testimonianza dello stesso Berlusconi - risale agli anni d’oro della Bacigalupo Calcio di Palermo, dove giocava il figlio del boss e Dell’Utri era allenatore. Il loro è sempre stato un rapporto confidenziale, ed in questo - secondo la Corte - si è consumata parte consistente del “concorso esterno” di Dell’Utri. Un rapporto che si è rafforzato tra il 1974 e il 1977, nella prima stagione del sodalizio mafioso tra Berlusconi e la famiglia di Santa Maria del Gesù, ed è durato anche tra il 1978 e il 1982, periodo nel quale Dell’Utri si allontana (ma solo apparentemente) da Berlusconi, cominciando a lavorare per le società dell’immobiliarista siculo Filippo Alberto Rapisarda, assai contiguo a diversi ‘uomini d’onore’, fuggito in Venezuela per sottrarsi alla condanna legata al fallimento nel 1979 della Venchi Unica 2000. In particolare, come amministratore delegato della Bresciano S.p.A. (che porterà al dissesto) e consigliere di Inim S.p.A. (dei cui fondi si approprierà).
La Corte di Cassazione aveva già confermato nel 2012 il permanere del «sinallagma dei pagamenti sistematici in favore di “cosa nostra”» nei periodi 1974-1978 e 1982-1992. Quanto al periodo intermedio, invece, aveva rinviato alla Corte d’Appello di Palermo per un nuovo giudizio e una più congrua motivazione sul perdurare del patto. E, alla fine, anche su questo punto - alla luce delle dichiarazioni (tutte ritenute attendibili) dei pentiti Ganci, Galliano, Francesco Paolo Anzelmo e Angelo Siino - la sentenza del 2014 forma pieno giudicato: i pagamenti alle famiglie di Cosa Nostra sono proseguiti anche tra il ’78 e l’82. Dell’Utri versava «i soldi a Cinà che si recava a ritirarli a Milano presso lo studio» di Dell’Utri medesimo, «senza soluzione di continuità fino alla morte di Bontate». Dopodiché, informato Riina dei ‘mal di pancia’ di Dell’Utri, il capo di Cosa Nostra - scrive la Corte - «estrometteva i Pullarà dai rapporti con Dell’Utri e affidava la gestione degli stessi esclusivamente a Gaetano Cinà». Il quale - nel ruolo di esattore - «si recava a Milano due volte all’anno per ritirare i soldi» che Dell’Utri gli corrispondeva per il tramite di Pippo Di Napoli e Raffaele Ganci.
Arriviamo così all’86. Dell’Utri e Cinà sembrano ai ferri corti, o quasi. Ma l’attentato di via Rovani, da imputarsi - come detto, secondo Galliano - all’opera della famiglia catanese di Nitto Santapaola (e comunque non di Cosa Nostra), non dà segno di mutare, nel complesso, i «rapporti di familiarità e cordialità» tra i due. Una bomba definita “affettuosa”, dieci chili di cassata spediti direttamente a casa Berlusconi, telefonate che rassicurano circa l’assenza di rancori reciproci.
E intanto, la strategia di Riina si affina. Dopo l’attentato di novembre, il suo potere intimidatorio ed estorsivo ne esce raddoppiato. Come la somma che adesso arriva a pretendere da Berlusconi, a suon di lettere e telefonate minatorie da Catania ordinate a Mimmo Ganci. E, la mancanza di rifiuto nel corrisponderla da parte di Berlusconi stesso o di Dell’Utri da un lato, e la giustificazione del maggior importo sulla base della «mutata posizione imprenditoriale» del Cavaliere dall’altro, rappresentano ulteriori ragioni dell’accresciuto prestigio di Riina, e quindi di Cosa Nostra tutta.
A partire dal 1987 Riina mette in atto - a giudizio della Corte, che raccoglie le dichiarazioni di Mimmo Ganci - «una reazione violenta» per «ridimensionare l’atteggiamento arrogante di Dell’Utri». E cioè, tentando «con l’autorizzazione dei catanesi» di «far credere che l’azione provenisse da ambienti catanesi», instillando così in Berlusconi, controparte imprenditoriale del patto mafioso, l’interesse a una maggiore protezione, e quindi a pagare fino al doppio per ottenerla.
Che fosse anche quello dell’86 un attentato voluto da Riina? Non è dato saperlo fino in fondo. Sulle bombe di via Rovani permane tutt’oggi il silenzio generale. Fino ad ora nessun processo è stato fatto. Né Berlusconi, del resto, ha mai denunciato le richieste estorsive. Piuttosto, ha preferito onorare il patto, cosa che farà - com’è risaputo - fino al 1992 e, dopo la sua discesa in politica, tramite il solo Dell’Utri ancora alle soglie del ’95. Nel frattempo, altri attentati si susseguono: il 28 gennaio 1988 sempre alla Villa, il 18 e 21 gennaio 1990 ai magazzini della Standa di Catania (acquistati da Fininvest due anni prima), tra il 12 e il 16 febbraio alla Standa di Paternò. In compenso, per questi ultimi due (di cui solo il primo, un incendio, causa un danno di 14 milioni di lire) una sentenza di Corte d’Appello passata in giudicato nel 2001 condanna gli esponenti della famiglia mafiosa catanese Nitto Santapaola e Aldo Ercolano, suo nipote e braccio destro, «quali mandanti degli incendi e della connessa tentata estorsione».
Fonti:
1) espresso.repubblica.it
2) Corte di Cassazione, I sez. penale, n. 28225/14
Tratto da: wordnews.it
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