“Siamo il paese più antico del ventesimo secolo”.
(Geltrude Stein)
Chiunque vinca, sarà il presidente più anziano della storia americana.
Ammesso che laggiù, in quelle lande sterminate tra l’Atlantico e il Pacifico, si possa parlare di storia.
Non secondo i nostri standard, sia chiaro. A parte le facce scolpite sul monte Rushmore, il lontano passato americano possiede ben poca storia. Diciamo che il più delle volte ha una narrazione.
Non c’è, nelle biblioteche d’oltreoceano, un Tacito, uno Svetonio, un De Tocqueville. E nemmeno un Omero.
L’epica americana viene cantata, postuma, dai film di John Ford e dai fumettosi romanzi di Louis L’Amour.
Questi ultimi, non a caso, lettura preferita di Eisenhower, nei convulsi anni della guerra in Europa.
Mondo selvaggio e idealizzato, ma sempre all’americana, quindi secondo canoni non necessariamente positivi, per le abitudini europee. Prima si spara e poi si fanno le domande. L’impiccagione e subito dopo, il regolare processo.
Inoltrandosi in deserti e praterie, armati solo di bibbia e Winchester, con dentro le bisacce il giusto mix di fede e disperazione.
Un mito gonfiato, esagerato, millantato fino alla sbruffoneria, ma tutto sommato accettabile, finché si rimane sul terreno della fantasia, dell’invenzione artistica.
Il guaio è quando viene preso sul serio, quantomeno come ideale e fonte di ispirazione, da una parte consistente dell’elettorato.
Abbandonandosi a un facile paragone, è come se noi prendessimo per vera l’invulnerabilità di Achille o la deificazione di Romolo.
Verrebbe da ridere, ma interpretare gli States secondo i parametri europei è sempre un grave errore, per altro abbastanza comune.
Quella già citata storia che abbiamo alle spalle, le tante stratificazioni che ci compongono, spesso in modalità inconsapevole, ci fanno guardare il passato con affettuoso paternalismo, ritenendolo era di simpatica ingenuità.
Perché il nostro passato è, appunto, passato da un pezzo. Lo contempliamo issandoci su rovine di millenni.
Quello americano è molto più recente di quanto si pensi.
Basta guardare una carta geografica degli Stati Uniti.
Andando dal nord-est verso ovest, i confini dei vari stati diventano sempre più regolari, squadrati, quasi fossero appezzamenti di terreno messi all’incanto.
Territori che solo dopo aver raggiunto le diecimila anime, ricevevano la grazia di un governatore e di una rappresentanza al Congresso. Dove la legge era comunque molto più presente di quanto ci racconti un John Wayne. Altrimenti, a forza di duelli e assalti alle diligenze, si sarebbero estinti da un pezzo.
Eppure non c’è scolaro americano, che guardando quei confini non si senta, anche in minima parte, erede del mito della Frontiera, per altro l’unico disponibile.
Prova ne sia l’ingombrante presenza, nell’albo d’oro delle presidenziali, di uno come Ronald Reagan. Forse l’uomo in cui, negli ultimi cinquant’anni, gli americani si sono maggiormente incarnati.
Che su un canale esponeva lo stato dell’Unione e sull’altro caracollava contro i sudisti. A colori attaccava l’Impero del Male e in bianco e nero svuotava il tamburo della Colt contro gli ululanti pellerossa.
Sorta di simpatico sbruffoncello, forte propugnatore di un pensiero debole, che si può condensare nella perniciosa dottrina della Deregulation, tana libera per ogni pescecane a stelle e strisce.
Il quale, per uno di quei casuali crocevia della storia, poté intitolarsi la patente di vincitore della Guerra Fredda. Titolo forse leggermente superiore ai suoi meriti.
Altro aspetto, apparentemente insignificante, ma simbolico, i colori degli schieramenti politici.
Nel Vecchio Mondo, oberato dai retaggi classici, il rosso è colore della rivoluzione, drappo da sventolare davanti al toro, financo colore dei cattivi. Visto che nelle esercitazioni Nato la fazione red ha sempre il ruolo di aggressor (leggasi russi/sovietici/cinesi) e quella blue di pacifico difensore del patrio suolo.
Nel Nuovo Mondo il blu, classico e aristocratico, è la tinta dei democratici, partito di quasi sinistra, tradizionalmente vicino alle minoranze e all’elettorato povero. Mentre il rosso è simbolo dei repubblicani, che pure sarebbero i campioni del capitalismo e del Leave it to the market.
Non per questo è un mondo capovolto, ha solo modelli diversi di riferimento.
Un mondo in cui, a tutt’oggi (scriviamo alle 11.00 a.m. del 4 novembre) non si sa ancora chi sia il nuovo presidente. In virtù di un sistema elettorale che sarebbe riduttivo definire inutilmente arzigogolato.
Eppure, in un paese ideale, nessuno che abbia consigliato ai propri elettori iniezioni di candeggina per difendersi dal Covid, potrebbe sperare di prendere un voto che uno.
Negli Stati Uniti reali invece, Trump è lì che lotta spalla a spalla e minaccia, in caso di sconfitta, la prosecuzione della lotta con altri mezzi.
Esecrarlo, in virtù del profluvio di castronerie e verità prefabbricate che è uso esternare, non basta.
Per spiegare, almeno in parte, il fenomeno, si deve evitare l’errore di restringere gli States a città come New York o Los Angeles, realtà cosmopolite che fanno storia a sé, appartenendo più al pianeta che alla società americana.
Si guardi piuttosto alle migliaia di paesini sparsi per il Midwest, con magari solo un drugstore e una pompa di benzina, il cui elettorato, bianco e impoverito, guarda a Trump come al messia.
Perché a dispetto del metodo comunicativo, cazzate ma con grinta, è l’unico da cui si sentano davvero considerati.
Rispecchiandosi nei suoi difetti, più che negli eventuali, e finora sconosciuti, pregi. Ritenendo aurea la sua palese mediocrità, per la semplice ragione che è anche la loro. E sconfessando lui, sconfesserebbero tutto ciò in cui sono cresciuti.
Non dopo che Hollywood, per molti unica fonte di apprendimento, ha mostrato loro che qualunque sia la minaccia, alieni, cataclismi, asteroidi in rotta di collisione, a salvare il mondo ci pensa sempre l’americano medio.
Il buon vecchio Tom, Bill o Jack, che dopo aver distrutto l’astronave madre, torna tranquillamente a dipingere lo steccato.
Infine, but not least, perché Donald incarna i tratti più scivolosamente egoistici di quella fetta di società americana.
I suoi ripetuti inviti a spendere e spandere, promettendo un rapido ritorno ai bei tempi andati. Le sue ben note preferenze per il junky food, che suona quasi eretico in un’epoca di continue conversioni al vegano.
Mangiare e spendere come se non ci fosse un domani, negando il Covid, il surriscaldamento globale e ogni altro scrupolo che possa frapporsi tra un suprematista bianco e la sua succosa, sfrigolante bistecca.
D’altronde, ricordava Andy Warhol, comprare è molto più americano di pensare.
Whatever happens, nome e colore del vincitore sono meno importanti di quanto si pensi. Cambierà solo il colore della famelica folla di burocrati, in trepidante attesa al di là del Potomac.
L’uomo più potente del mondo, l’Overlord del Sacro Impero d’Occidente, è limitato da una serie infinita di contropoteri, di lacci e lacciuoli, lobby e interessi, che i padri fondatori sparsero sui tappeti della Casa Bianca, nel timore che il Grande Capo diventasse troppo grande, sconfinando nella dittatura.
Right now, il presidente degli Stati Uniti è piuttosto un simbolo, culturale e antropologico, del tasso di ottimismo, o di paura, che attraversa la società nel suo complesso.
Venisse eletta una mediocre riserva della democrazia, come Biden, vorrebbe dire che la politica statunitense considera i quattro anni precedenti un incidente di percorso e che la maggioranza della società è pronta a fare i conti con il presente.
Vincesse Trump, con i suoi modi da toro nella cristalleria, significherebbe una cronicizzazione, in senso sclerotico, del Mito sulla realtà, con tutto quel che ne consegue. Incluso il rifiuto di accettare l’allargamento del mondo e l’arretramento dal ruolo di unico arbitro del destino comune.
Il che, a dispetto del più grande arsenale nucleare del pianeta, non è affatto poco.
Foto © Imagoeconomica
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