di Giuseppe Di Fini
E’ difficile non scadere nella retorica; specie se, per certi versi, la si esercita “per mestiere”. Eppure, anche quest’anno, non posso sottrarmi a quell’impegno della coscienza che è la memoria.
“Un servitore dello Stato in terra infidelium”. Con tali parole, Giovanni Falcone approdava ad una definizione di se stesso. Una terra infedele, la sua. Una terra che gli fu infedele. E lo fu così in fondo da decretarne la morte. Infedeli i siciliani, infedele il popolo italiano, infedele il C. S. M., infedele le forze della politica (ma di quale polis?). Servizi segreti deviati, istruzioni deviate, magistratura deviata. No, non deviazioni, ma sistema. Deviazione, semmai, fu proprio quella di Giovanni Falcone. Si torni a leggere René Girard, si torni a leggere Il capro espiatorio: “Più ci sia allontana dallo statuto sociale più comune, in un senso o nell’altro, più aumentano i rischi di persecuzione”. Quello da cui si allontanò Giovanni Falcone, del resto, fu ben più che uno statuto sociale, configurandosi invece come statuto statale ed istituzionale. Egli osò turbare l’ordine della menzogna, si spinse a disfidare l’immondo. La terra infedele, il 23 maggio 1992, soppresse quel figlio che le tese la mano. Volle liberarsi dal suo liberatore.
“Certo, ragioni di pessimismo ce ne sono tante e da più parti amplificate. Non è lo stesso Leonardo Sciascia a parlare, con tutta la sua autorevolezza, di Palermo come ‘città irredimibile’?”.
Giovanni Falcone, ''un servitore dello Stato in terra infidelium''
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