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di  Fulvio Abbate
“La mafia non è più quella di una volta”, Premio speciale della critica a Venezia, è forse il film più straziante ed essenziale del maestro palermitano. Un film sull'abisso

“La mafia non è più quella di una volta” di Franco Maresco, onorato a Venezia con il Premio speciale della critica, è forse il film più straziante ed essenziale del nostro maestro palermitano. Franco Maresco, lontano ormai, insieme alla sua stessa voce fuori campo, dal sodalizio con l’ex collega di strada Daniele Ciprì, ci fa infatti dono di una prova che surclassa l’idea stessa di capolavoro per essenzialità formale, un film dolente e insieme lontano da ogni spiraglio consolatorio, dove il riso si spezza presto in gola. Si tratta, narrativamente parlando, di un docu-film, il racconto della genesi di un’impresa, un’avventura popolare di piazza, dove la piazza, qui, riassume per intero le viscere cittadine, ciò che a Palermo si direbbero piuttosto frattaglie, “stigghiola”, e così ogni sua parete sporca di sangue e feci, Palermo, il suo iperstrabismo storico, più leggendario e millenario che non epocale, proprio di una città impropriamente, dagli Spagnoli proclamata “Felicissima”, una città che mostra semmai la prospettiva dei pozzi neri, una città catacomba e non solo per l’inserto tra le mummie barocche del Cimitero dei Cappuccini. Così nella propria araldica mortuaria.

Maresco documenta, se ne vogliamo seguire letteralmente le tracce, come in una morgue, i lavori preparatori, appunto, di una festa di piazza che deve avere luogo nel cuore del quartiere ZEN (l’acronimo di Zona Espansione Nord sembra aggiungere ironia ad abbandono) simbolo, non meno araldico-urbanistico, di degrado, indigenza diffusa, connivenza criminale, pathos mafioso, Zen ovvero un quartiere-limbo, da sempre connaturato con la mafiosità attiva e operante nel 38° parallelo Nord, lo stesso che incrocia sia il nostro abisso sia le non meno problematiche due Coree, almeno per chi ha fame di storia, luoghi di iper-strabismo si rispecchiano nei loro simili.

L’organizzatore generale, di più, il motore immobile di ciò che per gentilezza chiameremo kermesse, è Ciccio Mira, impresario, maschera terminale del rodato “Circo Barnum” mareschiano, è lo stesso regista a pretendere questa definizione per il suo umanissimo tavolo di dissezione filmico cittadino, Maresco che ne è il domatore; Mira già apprezzato in “Belluscone”, un’opera da ritenere solo impropriamente preparatoria di questo nuovo episodio; per citare Céline, maestro della teratologia letteraria, sorta di Guignol’s Band II.

In ogni caso, la maschera in bianco e nero di Mira è lì per rendere possibile l’impossibile, un concerto in nome della legalità là dove vige il suo opposto perfino sui tatuaggi, con i suoi “artisti”, il suo tragicomico “vivaio” cui affidare, nonostante le comprensibili remore, un programma letteralmente, fin dal festone fissato come aureola sul palchetto da sagra, intitolato: “Neomelodici per Falcone e Borsellino allo Zen”.

Laddove semplicemente pronunciare il nome stesso dei “martiri” dell’antimafia suona come provocazione, quasi a scheggiare con gli sputi il sacro imene materno della mafia. Un’effrazione, di più, un vilipendio rivolto alla rocciosa attitudine verso il mutismo dei panormiti profondi, così abissale da rendere alle loro labbra indicibile il bisillabo stesso ma-fia. Cosa? Chi? Suca! Da antologia in questo senso la scena “rubata” della lettera che Mira e Mannino mettono nero su bianco, Totò e Peppino rovesciati nell’angoscia spettrale di una possibile vendetta criminale.

Ad accompagnare l’intero racconto inscenato da Maresco, con dichiarata allegria funebre, categoria quest’ultima che Pasolini attribuiva a Mozart, la fotografa Letizia Battaglia, sorta di Mutter Courage, qui senza nessuno dei suoi figli dei quartieri bene, interprete convinta della coscienza civile cittadina; il caschetto di Letizia Battaglia, la sua reflex da sempre a tracolla, Letizia pronta a mostrare, come da promesso docu-film ai margini di Conca d’Oro e Monte Pellegrino, i luoghi, le stanze, i “catoi”, le camere della morte, ora abitati da una trans irriducibile e furente per un cliente messo in fuga dalle cineprese, le stazioni tutte della via crucis antimafiosa cittadina nei giorni di sfoggio cerimoniale, quando lo Stato ha memoria di sé e dei suoi migliori uomini consegnati al moloch mafioso perché fossero da questi sbranati, dall’Albero Falcone al quartiere Brancaccio, la troupe a contemplare la statua del beato Pino Puglisi, assai simile a un cereo Silvio Berlusconi, la sua effigie spettrale nel vuoto della teca.

Tuttavia, al netto dell’universo di riferimento narrativo, in verità, il film di Maresco trascende il luogo stesso della sua genesi spettrale, Palermo. Sovrastando l’obitorio umano ed etico che il regista ha messo insieme in una sorta di racconto cristologico. Tuttavia, se in passato, di fronte ai momenti più comici e grotteschi non potevamo sottrarci dal ridere delle maschere sdendate e illetterate messe in fila, si pensi a Pietro Giordano nei panni del Cardinale Sucato in “Il ritorno di Cagliostro” o piuttosto al vecchio messia che risponde con un grande “Suca” a Lazzaro appena risorto dalla vasca colma d’acido in “Totò che visse due volte”, ogni cosa adesso, dal ragazzo Cristian Miscel, che dice d’essere uscito dal coma per intercessione proprio di Falcone e Borsellino, allo struggente e insieme straziante Matteo Mannino, al “produttore” iperbolico di Ciccio Mira, l’insieme dei personaggi suggerisce piuttosto un sentimento di pietà e di strazio, come in un requiem che si offre ben oltre le notazioni antropologiche.

La sociologia, seppure mascherata da semplice apologo morale, gli strumenti dell’indagine sul campo, la memoria di Cortile Cascino con Danilo Dolci che giunge a farsi apostolo civile a Palermo negli anni Cinquanta, nulla di tutto questo può essere evocato davanti all’obitorio abusivo di “La mafia non è più quella di una volta”, su tutto resta un’immagine tragica, resta il luogo di una deposizione, un supplizio montato sui palchetti dei concerti dei neomelodici. Sia detto per inciso, Palermo, la città di Ciccio Mira e della sua televisione monorionale TBS, non ha mai avuto un suo canto autoctono, Palermo, i suoi bassifondi, al momento del canto, raggiungono e sognano Napoli, idealmente è un po’ come se Ucciardone si trasferisse a Poggioreale. E con il carcere l’intero cuore della città più profonda, ferita, crudele, inerme, mafiosa.

Stupisce che, come detto e scritto, alla mostra di Venezia, perfino presso il pubblico più comune e disarmato, il film di Franco Maresco abbia suscitato un’adesione immediata, empatia, consenso, applausi, stupisce perché questa nuova sua opera, la stessa nella quale il maestro palermitano ha consegnato per intero il suo lutto e la sua disperazione (altro che cinismo, posto che Maresco è prigioniero delle maschere di Ciccio Mira e di Mannino e non certo l’aguzzino di queste anime brute e insieme innocenti) è tutt’altro che leggera e consolatoria, e la scena acme dei “neomelodici per Mattarella”, con la cantante sbandieratrice lì sul palco come in un palio terminale, un solo ragazzino a far da pubblico, meglio di ogni altra cosa racconta ciò che altri, con le pompe della retorica, hanno definito l’irredimibilità di un luogo: Palermo, Cosmo.

Dimenticavo: non fate caso a chi sembri voler schiacciare l’intera storia sul cancello di casa Mattarella, lo stesso contro cui la Fiat 600 di papà Mira va a frantumare il proprio muso nella preistoria degli anni Sessanta, è solo un dettaglio, “La mafia non è più quella di una volta” è piuttosto un film sull’abisso, non certo sull’infortunistica stradale seppure civile in una città che accanto a ogni targa d’auto e ai suoi catarifrangenti, fin dal tempo di Carlo V, appone l’acronimo MCN, ovvero “Minchia cacata niente”. L’abisso negli occhi del povero Matteo Mannino dopo le minacce ricevute allo Zen. Da non perdere. Sia detto da palermitano ormai apolide.

Tratto da: huffingtonpost.it

Foto © Tommaso Lusena

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