di Simona Zecchi
Borsellino: la strage e le vicende processuali
Sono passati 27 anni dalla strage di Via Mariano D'Amelio a Palermo, la strage che ha falciato la vita del giudice Paolo Borsellino e quelle della sua scorta (a eccezione che per un agente sopravvissuto, Antonio Vullo): i cinque agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. E’ il 19 luglio del 1992 e a 57 giorni dall'altra strage, il massacro di Capaci, alle 16.58 un'autobomba mette fine all'ultimo baluardo contro la mafia. Il fumo, le lamiere, i corpi a brandelli, sono l'effetto macabro, palese di un costrutto molto più complesso.
Il 20 aprile del 2017 si è conclusa la storia processuale del procedimento monstre sulla strage con la sentenza della corte d'Assise di Caltanissetta, sentenza preceduta da altre tre vicende processuali (Borsellino I-II e III). Alla decisione i giudici sono arrivati tenendo conto della sentenza del 2006 (frutto dell’unione di due processi, uno stralcio del Borsellino III e parte del procedimento della strage di Via Capaci). I giudici hanno definito la manipolazione compiuta sul "pentito" Vincenzo Scarantino - e quindi, a ridosso, degli altri pentiti che lo hanno affiancato - "il più grande depistaggio della storia della giustizia della Repubblica italiana".
Intanto, di presenze anomale la procura di Caltanissetta ha trattato, oltre a parlare di "centri di potere" ancora ignoti, tutti dietro al tragico evento. Il sovrintendente Francesco Paolo Maggi, a esempio soltanto nel 2014 rivela per scrupolo di coscienza di aver visto agenti dei servizi segreti a lui noti, e provenienti da Roma, gravitare intorno alla macchina semi-carbonizzata del magistrato. Gli stessi che erano stati visti diverse volte davanti all’ufficio di Arnaldo La Barbera, il discusso super poliziotto (Rutilius per il Sisde ora AISI) che, intervistato da L'Unità il 20 luglio 1994, dopo gli arresti di Scarantino e gli altri, aveva affermato - parlando del successo dell'operazione - che questa risiedeva, parole sue, nell'assioma: "niente burocrazia". A parte il limite di quest'affermazione rispetto al danno imposto alla verità tutta, è possibile però capire quanto questo leit motiv andasse a braccetto con il depistaggio poi applicato.
I buchi neri delle indagini
E' il nodo di tutto, non soltanto attinente alla eventuale presenza fisica di altri complici, estranei al mondo mafioso sulla scena, ma anche al ruolo avuto come mandanti altri nella strage, intorno alla quale negli anni si sono alternate vicende processuali parallele diverse. Ne abbiamo parlato con il giornalista Giuseppe Lo Bianco, autore insieme a Sandra Rizza del libro appena edito da Chiarelettere "DepiStato" e all'avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, fratello del giudice.
Borsellino: la strage e le vicende processuali
Sono passati 27 anni dalla strage di Via Mariano D'Amelio a Palermo, la strage che ha falciato la vita del giudice Paolo Borsellino e quelle della sua scorta (a eccezione che per un agente sopravvissuto, Antonio Vullo): i cinque agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. E’ il 19 luglio del 1992 e a 57 giorni dall'altra strage, il massacro di Capaci, alle 16.58 un'autobomba mette fine all'ultimo baluardo contro la mafia. Il fumo, le lamiere, i corpi a brandelli, sono l'effetto macabro, palese di un costrutto molto più complesso.
Il 20 aprile del 2017 si è conclusa la storia processuale del procedimento monstre sulla strage con la sentenza della corte d'Assise di Caltanissetta, sentenza preceduta da altre tre vicende processuali (Borsellino I-II e III). Alla decisione i giudici sono arrivati tenendo conto della sentenza del 2006 (frutto dell’unione di due processi, uno stralcio del Borsellino III e parte del procedimento della strage di Via Capaci). I giudici hanno definito la manipolazione compiuta sul "pentito" Vincenzo Scarantino - e quindi, a ridosso, degli altri pentiti che lo hanno affiancato - "il più grande depistaggio della storia della giustizia della Repubblica italiana".
Intanto, di presenze anomale la procura di Caltanissetta ha trattato, oltre a parlare di "centri di potere" ancora ignoti, tutti dietro al tragico evento. Il sovrintendente Francesco Paolo Maggi, a esempio soltanto nel 2014 rivela per scrupolo di coscienza di aver visto agenti dei servizi segreti a lui noti, e provenienti da Roma, gravitare intorno alla macchina semi-carbonizzata del magistrato. Gli stessi che erano stati visti diverse volte davanti all’ufficio di Arnaldo La Barbera, il discusso super poliziotto (Rutilius per il Sisde ora AISI) che, intervistato da L'Unità il 20 luglio 1994, dopo gli arresti di Scarantino e gli altri, aveva affermato - parlando del successo dell'operazione - che questa risiedeva, parole sue, nell'assioma: "niente burocrazia". A parte il limite di quest'affermazione rispetto al danno imposto alla verità tutta, è possibile però capire quanto questo leit motiv andasse a braccetto con il depistaggio poi applicato.
I buchi neri delle indagini
E' il nodo di tutto, non soltanto attinente alla eventuale presenza fisica di altri complici, estranei al mondo mafioso sulla scena, ma anche al ruolo avuto come mandanti altri nella strage, intorno alla quale negli anni si sono alternate vicende processuali parallele diverse. Ne abbiamo parlato con il giornalista Giuseppe Lo Bianco, autore insieme a Sandra Rizza del libro appena edito da Chiarelettere "DepiStato" e all'avvocato Fabio Repici, legale di Salvatore Borsellino, fratello del giudice.
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