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di Guido Casavecchia - Intervista
Guido Casavecchia, studente di Giurisprudenza dell’Università di Torino, ha intervistato il dottor Andrea Meccia all’interno delle attività di formazione e divulgazione circa il fenomeno mafioso del comitato Antimafia Channel, di cui è membro.
Andrea Meccia, laureato in Scienze della comunicazione presso l’Università di Roma “La Sapienza”, insegnante d’italiano per stranieri, giornalista e formatore. È stato responsabile della “Galleria virtuale su mafie e antimafia” della “Casa Museo-Joe Petrosino” di Padula (Sa). Collabora con l’associazione da Sud al progetto di Àp-Accademia popolare dell'antimafia e dei diritti. Tra le sue pubblicazioni “Le mafie sul grande schermo” (in “Strozzateci tutti”, Aliberti Editore), “La grande solitudine” (in “Novantadue. L’anno che cambiò l’Italia”, Castelvecchi Editore), “Le mafie rappresentate: a dieci anni da Gomorra” (in “Passato e presente”, Franco Angeli, 2016), “Italia 2016-Nella morsa di Alfredino" (in “Under. Giovani, mafie e periferie", Giulio Perrone editore, 2017) e la monografia “Mediamafia. Cosa Nostra fra cinema e Tv” (di Girolamo Editore, 2014).

Come mai si è scritto poco, in passato, del rapporto tra mafia e media?
Negli ultimi anni l’attenzione circa questa relazione (storicamente poco prolifica) è aumentata, ma credo sia un problema che vada al di là dello studio della sola mafia. Questa produzione modesta è figlia di un ritardo culturale che riguarda lo studio, nel nostro Paese, dei mezzi di comunicazione. L’educazione ai media non rientra tra i curricula scolastici e gli strumenti del comunicare, talvolta, vengono guardati in modo un po' apocalittico. Dobbiamo, invece, imparare a conoscerli nella loro evoluzione storico-sociale-tecnologica con l’obiettivo, poi, di governarli senza timore.

Che rapporto esiste tra le diverse rappresentazioni della mafia operate dai media audiovisivi, dalla letteratura, dalla saggistica o dalla cronaca giudiziaria?
I fenomeni mafiosi possiamo studiarli e comprenderli attraverso una pluralità di fonti. Fare gerarchie è operazione inutile. Tanto le inchieste giudiziarie quanto le opere letterarie, cinematografiche o la canzone (ognuna con i propri caratteri peculiari) sono fonte di analisi e di studio.

Come sono state rappresentate le varie mafie italiane nel cinema?
Il cinema del ‘900 ha dedicato maggiore attenzione a Cosa Nostra e, in seconda battuta, al fenomeno camorristico. Sulla ‘ndrangheta, invece, c’è stata scarsissima attenzione. Non possiamo dire che questa tendenza si stia invertendo negli ultimi anni, ma registriamo una attenzione maggiormente pluralista ai diversi fenomeni criminali. Il racconto cinematografico, solitamente, accompagna l’impatto mediatico che le organizzazioni mafiose hanno nell’interagire con la cronaca e la storia del nostro Paese. Pensiamo alla capacità di generare racconto che hanno avuto le stragi terroristico-mafiose, soprattutto per la loro sconcertante virulenza nel biennio ’92-’93. La capacità della mafia di creare terrore conferisce uno statuto di realità a se stessa. La mafia fa notizia e buca lo schermo. Il cinema, la letteratura e il giornalismo hanno fatto proprie e rielaborato queste vicende socio-politiche, trasformandole in questioni nazionali. Ce le hanno raccontate e hanno permesso al Paese intero di conoscere un fenomeno che, invece, rischiava di rimanere colpevolmente relegato in determinate zone d’Italia.

Quali esempi abbiamo?
Alcuni flash... A partire dagli anni ’60 - periodo della prima grande guerra di mafia, dell’istituzione della Commissione antimafia e della strage di Ciaculli - con il Salvatore Giuliano di Rosi e attraverso i romanzi di Sciascia (e le relative traduzioni cinematografiche) scopriamo, tra carta e schermo, i legami fra mafia e politica. Sempre Rosi, pochi anni prima, ci aveva offerto un’importante rappresentazione della camorra ne La sfida. Anche il cinema di genere, degli anni ’70, è una fonte non secondaria nell’analisi del fenomeno mafioso. Pensiamo ai polizieschi che ne testimoniano la presenza nel Nord Italia, o alle cine-sceneggiate con Mario Merola, che offrono allo spettatore il corpo della città di Napoli sfregiato dalla camorra. La trasformazione mediale che ha successivamente vissuto il libro Gomorra, di Roberto Saviano, ha rivoluzionato profondamente il modo di raccontare il crimine organizzato in Italia. Ha avuto un effetto mediatico paragonabile a quello che ebbe La Piovra a partire dalla sua prima edizione del 1984. L’attenzione mediatica per la ‘ndrangheta, invece, si fa più corposa con i sequestri di persona tra gli anni ’80 e ’90, ed esplode dopo la strage di Duisburg del 2007. Nel 2014 Francesco Munzi realizza Anime nere, un film che ci conduce nel cuore profondo e tenebroso della ‘ndrangheta. Nella seconda stagione di Gomorra, una parte della narrazione si svolge proprio in Germania dove operano camorristi e ‘ndranghetisti. Recentemente Rai Uno ha anche trasmesso il film-Tv Liberi di scegliere, ispirato al lavoro del Tribunale dei minori di Reggio Calabria sull’affidamento dei minori nati e cresciuti in famiglie mafiose.

Quali rappresentazioni della mafia ci ha consegnato, invece, la canzone?
Sull’onda dei terribili fatti del ’92-‘93, anche il Festival di Sanremo accolse il tema “mafia” sul palco fiorato del Teatro Ariston, con la canzone Signor tenente di Giorgio Faletti. Qualche anno prima, De André ridisegnò la figura di Raffaele Cutolo in Don Raffaè, con il punto di vista spiazzante tipico del cantautore genovese. Il film I cento passi è stato uno straordinario “agente di storia”, un film capace di muovere la passione politica e l’attenzione verso il tema mafia di una generazione cresciuta negli anni in cui i partiti vedevano un arretramento della loro centralità nel sistema politico-democratico. A testimoniarlo ulteriormente è stata l’omonima canzone dei Modena City Ramblers, che spesso accompagna iniziative pubbliche del movimento antimafia. Scavando negli archivi musicali e cinematografici, si deve ricordare anche la canzone Mafia, di Domenico Modugno. La canzone era parte della colonna sonora del film L’onorata società, regia di Riccardo Pazzaglia con Franco e Ciccio protagonisti. Era una canzone “tenebrosa”, dal sapore western (un motivo ricorrente della produzione culturale sul tema mafia). Pensiamo alle immagini de In nome della legge di Pietro Germi e Il giorno della civetta di Damiano Damiani o alle parole di fuoco che Peppino Impastato trasmetteva dalla sua Onda pazza. Un altro momento importante da ricordare è il pluripremiato musical di Roberta Torre Tano da morire, con le musiche di Nino D’Angelo. È il primo musical che mette in scena la mafia. Siamo nel 1997, nel pieno dell’onda emotiva scatenata dalla stagione stragista di Cosa Nostra. Per vedere operazioni di questo tipo, dovremo attendere gli ultimi anni con i Manetti Bros e i loro Song ‘e Napule e Ammore e malavita. Un discorso a parte meriterebbero anche il mondo della canzone neomelodica, il rap e la trap, quando scelgono di raccontare l’universo criminale.

All’estero permane l’idea hollywoodiana della mafia, apologetica e folkloristica?
Una delle parole italiane più conosciute fuori dai nostri confini è “mafia”. Demitizzare l’universo culturale mafioso è, quindi, operazione culturale necessaria ma anche complessa. Su questo fronte è impossibile non misurarsi con la magniloquenza de Il Padrino. C’è chi considera la trilogia di Coppola un corpus narrativo che mette in scena aspetti apologetici del fenomeno mafioso che, nel corso degli anni, sono stati sfruttati a livello commerciale e di marketing. Sono rischi culturali che si corrono e con cui dobbiamo misurarci. Ignorarli potrebbe essere un’azione altrettanto dannosa.

Sul versante opposto, quello criminale, notiamo sempre più spesso la tendenza dei mafiosi a usare i social e forme di comunicazione di uso comune.
Questo ci fa capire come i mafiosi non siano qualcosa di così distante da noi. Sono soggetti violenti e criminali, certo, ma sono comunque figli del loro e del nostro tempo. Usano gli strumenti della comunicazione a disposizione di tutti e lo fanno soprattutto per creare consenso attorno a loro. Dobbiamo sempre ricordare che non può esistere la mafia senza un largo favore sociale. La mafia è un fenomeno politico. Quindi l’uso dei mezzi di comunicazione è anche legato al voler esporre ad un pubblico (potenzialmente infinito) la propria vita, i propri gusti culturali, i propri (dis)valori, con l’obiettivo di accrescere positivamente la propria immagine pubblica. Le mafie hanno straordinarie capacità di modernizzazione. L’uso dei social ne è un esempio illuminante.

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