Intervista
di Federica Giovinco
Esiste un uomo, come purtroppo pochi sanno o ricordano, che custodisce caramente i ricordi più intimi di e su Giovanni Falcone. Quest’uomo, “emarginato” dallo Stato, seppur elegantemente con la consegna della Medaglia d’oro al valor civile, ha guidato l’auto di Falcone per ben otto anni. Parliamo di Giuseppe Costanza, l’autista giudiziario di Giovanni Falcone.
Il 23 maggio 1992, le tre macchine percorrono l’autostrada che porta a Palermo ma, nei pressi dello svincolo di Capaci un boato travolge la prima auto con gli agenti di scorta Antonio Montinario, Rocco Dicillo e Vito Schifani che muoiono all’istante. L’ultima auto di scorta del giudice ne esce meglio ma non del tutto illesa: gli agenti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello riportano ferite ma si apprestano a soccorrere i colleghi ed i giudici Falcone e Morvillo. Nella seconda auto, Giovanni Falcone fece l’ultimo atto eroico della sua vita senza saperlo: si mise lui stesso alla guida della vettura, con la moglie accanto, mentre fece accomodare Giuseppe Costanza nel sedile posteriore. Il tritolo compromette gravemente Giovanni Falcone, che riesce ancora a dare deboli segni di vita e Francesca Morvillo, che riesce ancora a respirare. Moriranno più tardi in ospedale. Giuseppe Costanza riporta gravi traumi e ferite ma sopravvive. Sopravvive, appunto, è il termine esatto. A chiarire questa affermazione ci pensa lui stesso, che gentilmente ha risposto alle nostre domande.
Lei dice spesso che lo Stato l’ha abbandonata e quasi si sente in colpa di essere sopravvissuto quel maledetto 23 maggio ’92. Perché?
“Essere sopravvissuto è stato terribile, rientrato in servizio non sapevano cosa farsene di me, mi sarei aspettato un trattamento più umano. Se al posto mio fosse rimasto vivo Falcone avremmo visto l’Italia diversa”.
Infatti, Costanza tornò in Procura un anno dopo la strage ma, non sapendo cosa farsene di un sopravvissuto, scomodo tra l’altro, visto che era diventato una sorta di confidente di Falcone, lo retrocessero a commesso, una sorta di ausiliario subordinato con meri compiti esecutivi. A seguito delle sue numerose proteste fu inserito nel quarto livello, ma in ogni caso, come lui stesso dice, “ero un nullafacente”. Nella vita sociale niente andava meglio. Nessuno ricordava di lui, nessuno lo invitava alle commemorazioni, nessuno mai.
Quale aria si respirava nel vostro ambiente in quegli anni infuocati?
“Erano anni molto stressanti. Ci si aspettava un probabile attentato in qualsiasi momento. Al giudice necessitavano uomini di cui si potesse fidare.”
Giovanni Falcone aveva attorno a sé colleghi invidiosi e traditori, gente che si vendeva alla mafia o alla sete di potere. In quell’ambiente non poteva fidarsi di nessuno, solo dei colleghi del pool e dei suoi uomini di scorta.
Come si rapportava Falcone con voi uomini della sua scorta?
“Falcone come giudice era inavvicinabile. Come uomo nei miei confronti era diverso, perchè aveva bisogno di qualcuno di cui potersi fidare. Quando era nel privato scherzava raccontandomi delle barzellette.”
Falcone ci ha insegnato e si è concesso anche la leggerezza di essere un semplice uomo, come tutti i veri eroi, lasciandosi andare all’ironia, allo scherzo ed a qualche sorriso, sicuramente ottima medicina per curare le delusioni e le ferite del cuore.
Quanto è importante parlare del vero volto della mafia alla gente? Quale appello sente di fare ai giovani?
“Parlare ai ragazzi e spiegare cosa è la mafia e avvertirli di non dargli spazio, ma di far valere i propri diritti. Trovo molta attenzione e credo che la nuova generazione darà una svolta, affinché la società attiva faccia cambiare questo cancro malefico che distrugge la nostra società” - aggiunge - “Io ci credo”.
Il messaggio è quello di non abbattersi mai, di non scoraggiarsi, vivere sempre di quella sana speranza nutrita da Giovanni Falcone, che lo spingeva a fargli credere che le cose potessero cambiare. Nonostante tutte le delusioni, i colpi inflitti da quelli che credeva suoi amici, l’ostracismo delle cariche più alte della sua categoria, non lo fecero mai mollare e neppure esitare. Può sembrare che alla fine abbia perso la guerra, ma in pochi sappiamo che lui ha vinto. Ha vinto non solo quando con le sue tecniche innovative d’indagine e con il suo coraggio ha firmato i mandati d’arresto per i peggiori mafiosi italiani e stranieri, ma ha vinto soprattutto quando, nonostante la morte, è riuscito a sopravvivere: i suoi pensieri, la sua caparbietà, la sua voglia di cambiare lo stato di cose, la sua lotta ed il suo coraggio, camminano ogni giorno sulle gambe di chi non cede al compromesso morale e fa, onestamente, ogni giorno il suo lavoro, rifiutando strade facili e vivendo nel suo insegnamento.
Giuseppe Costanza ha fatto delle sue ferite il punto da cui ripartire, dell’amarezza ne ha fatto motore di quella sana rabbia che lo spinge a continuare a combattere perché la memoria di Falcone e dei suoi colleghi scomparsi non sia sterile ma abbia un senso pratico e attuale di presa di posizione e di ricerca della verità, perché il ricordo dei vivi, dei sopravvissuti, non sia carta straccia di pagine di un diario segreto ma sia la luce per le generazioni che ci sono e che verranno.
“A questa città vorrei dire: GLI UOMINI PASSANO, LE IDEE RESTANO. RESTANO LE LORO TENSIONI MORALI E CONTINUERANNO A CAMMINARE SULLE GAMBE DI ALTRI UOMINI” (Giovanni Falcone)
(28 Ottobre 2018)
Tratto da: 19luglio1992.com
Giuseppe Costanza, autista di Falcone: ''Essere sopravvissuto è stato terribile''
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