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aula tribunale4di Francesco Bertelli
La politica si vede nei dettagli. E’ li che opera e che poi trasferisce i suoi effetti sulla collettività. A volte opera nel verso giusto, altre pare proprio che faccia di tutto per dimostrarsi al di sopra del popolo, il quale se si va a leggere l’art.1 della Costituzione detiene il potere della sovranità (sempre che oggi tutto questo abbia ancora un senso, vista l’aria che tira).
Prendiamo ad esempio il reato di falso in bilancio: una fattispecie di reato invocata per quasi un ventennio e finalmente, così ci è stato detto, reintrodotto dal governo Renzi. Poi se andavi a leggere la normativa introdotta notavi che: “Il fatto non è punibile se le falsità o le omissioni non hanno determinato una alterazione sensibile della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della società o del gruppo al quale essa appartiene. La punibilità è comunque esclusa se le falsità o le omissioni determinano una variazione del risultato economico di esercizio, al lordo delle imposte, non superiore al 5% o una variazione del patrimonio netto non superiore all’1%”.
Si tratta del comma 3 dell’emendamento presentato dal governo Renzi nel gennaio 2015, che ricalcava la normativa del governo Berlusconi del 2003. Insomma il falso in bilancio c’è ma è stato abbondantemente annacquato. Questi sono i dettagli.
Ora concentriamoci sulla materia di questo articolo. Il segreto investigativo (o istruttorio). L’art.329 del codice di procedura penale ci dice che : "Gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto […]”.
Fra gli atti segreti, che costituiscono la regola durante le indagini, l’art.329 ci fa un elenco come ad esempio gli accertamenti tecnici ripetibili, l’individuazione di persone o cose, l’assunzione di informazioni da possibili testimoni, ecc. Questi atti sono coperti dal segreto investigativo fino all’avviso di conclusione delle indagini (art.415-bis codice procedura penale). L’obbligo del segreto opera in modo oggettivo e si riferisce a tutte quelle persone che hanno partecipato o assistito al compimento dell’atto: tornando all’art.329, comma 1, si legge che il segreto riguarda “gli atti di indagine”.
Questa è la normativa così come la conoscevamo. Nel frattempo però è intervenuto qualche piccolo dettaglio. Tutto nasce dall’articolo 18 del decreto legislativo n.177 del 19 agosto 2016, entrato in vigore a dicembre dello stesso anno. L’ultimo atto del governo Renzi. Si tratta di un decreto in apparenza inoffensivo che ha imposto l’accorpamento del Corpo forestale dello Stato dell’Arma dei carabinieri.
Al quinto comma, il testo ci fa sapere che entro sei mesi dall’approvazione della legge “al fine di rafforzare gli interventi di razionalizzazione volti ad evitare duplicazioni e sovrapposizione, anche mediante un efficace e omogeneo coordinamento informativo, il capo della polizia - direttore generale della pubblica sicurezza e i vertici delle altre Forze di polizia adottano apposite istruzioni attraverso cui i responsabili di ciascun presidio di polizia interessato, trasmettono alla propria scala gerarchica le notizie relative all’inoltro delle informative di reato all’autorità giudiziaria, indipendentemente dagli obblighi prescritti dalle norme del codice di procedura penale”.
Primo punto da chiarire: l’informativa di reato si tratta del primo atto scritto in cui uno o più membri delle forze dell’ordine riassumono i risultati di un’inchiesta, in quel preciso momento coperta da segreto, per poi trasmetterli alla magistratura e quindi alla Procura di competenza. Il coordinamento di cui parla il testo del decreto, finora era di competenza dei magistrati inquirenti. Adesso, ovvero dallo scorso dicembre, l’informativa dovrà percorrere tutte le scale gerarchiche della Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza. E indovinate un po' chi sta sopra a tutti loro, all’ultimo gradino delle gerarchie? I vari ministeri di competenza: quello dell’Interno, della Difesa e dell’Economia.
In tutto questo tecnicismo è ovvio un elemento, che ormai da molti mesi non viene più affrontato: ad essere snaturato è il principio del segreto investigativo, proprio alla luce di questi gradini gerarchici che questi atti segreti devono percorrere. E se l’ultimo gradino di questa scala gerarchica è, come ovvio, rappresentato dalla poltrona di un ministro è chiaro che la necessità di coordinamento tanto invocata da tale decreto va ad intaccare un principio sacrosanto che consiste nell’indipendenza della magistratura: con questa nuova normativa, già in vigore da quasi sei mesi, i carabinieri, i poliziotti e i finanzieri hanno l’obbligo di comunicare ai proprio superiori il contenuto delle indagini appena avviate. Ciò rappresenta un danno di sistema, che non dovrebbe subire alcuna deroga in proposito ma semplicemente rispettare i dettami del codice di procedura penale senza alcun stravolgimento.
Facciamo un esempio. Cosa potrebbe accadere davanti ad un’inchiesta per mafia, corruzione o altro che possa mettere in imbarazzo soggetti legati alla politica? Tale inchiesta per via preferenziale, arriverebbe subito sulla scrivania della politica prima che ne venga a conoscenza l’interessato. Senza contare che il provvedimento della magistratura potrebbe giungere mesi dopo.
E’ stato molto chiaro un paio di mesi fa il pm Woodcok, il quale prendendo carta e penna in risposta alle proteste di Legnini sulle “fughe di notizie nei giornali” non ha fatto altro che sottolineare la situazione di pericolo per le indagini, alla luce proprio del decreto introdotto l’estate scorsa.
Prendiamo il caso Consip. Qui ad essere toccati sono i generali Del Sette e Saltamacchia. Entrambi avrebbero informato gli indagati, tra cui il padre dell’ex premier, delle indagini in corso già molto prima dell’estate 2016. E poi in estate il governo Renzi si apprestò a inserire in tale decreto di accorpamento il comma 5 sopra illustrato. Prima che iniziasse l’indagine Consip. Coincidenze?
Di certo a serio rischio è un elemento fondamentale del nuovo codice di procedura penale introdotto nel 1989. Solo Spataro e pochi altri si sono resi conto del problema o hanno avanzato moniti di pericolo.
L’unica speranza è che la Corte Costituzionale si pronunci su questo “vulnus” alquanto pericoloso. E forse non ci sarebbe neppure da meravigliarsi più di tanto: speso si dice che il legislatore dovrebbe essere più accorto e meno confusionario. E se invece fosse soltanto molto furbo?

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