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Letizia Trojano 1Fotogallery
di Filippo Trojano

Il volo per Palermo arriva in orario all’aeroporto Falcone Borsellino. Piove ma la temperatura è buona. Letizia Battaglia mi ha dato appuntamento alle 18,00 a casa sua.
Raggiungo il centro della città e aspetto che arrivi l’ora guardandomi intorno.
Ripenso al nostro scambio di mail e alle parole al telefono.
“Sono un fotografo amico di Franca Imbergamo”. “Chi è amico di Franca Imbergamo è anche amico mio” risponde.
“Vorrei intervistarla e parlare con lei di fotografia, di arte e memoria e non vorrei parlare di mafia”. Dopo una pausa, “Va bene, allora possiamo incontrarci perché io non voglio parlare di mafia”. Questa sua risposta mi spiazza e mi incuriosisce. “Vorrei provare a raccontare Palermo seguendo delle sue tracce, una “Palermo di Letizia” aggiungo. E mentre pronuncio queste parole immagino le sue mani a formare un’inquadratura sulla città chiudendo un occhio, come a guardare nel mirino.
Mi chiede cosa faccio e le dico che oltre a fare il fotografo insegno. Rimane colpita quando racconto che da due anni tengo anche un laboratorio di fotografia in una comunità psichiatrica e mi dice che anche lei anni fa ne fece uno con delle donne schizofreniche ed epilettiche. Fissiamo il nostro incontro e ci salutiamo.
Mi chiedo se sarà in grado di non parlare di mafia. Comincio a pensare a come costruire delle domande da farle e ripenso al bellissimo libro di Giovanna Calvenzi su di lei; cerco spunti da cui partire e prendo l’idea del teatro, dell’esperienza che Letizia fece a Milano conoscendo Dario Fo, lasciando Palermo e che poi riprese con Perriera quando vi fece ritorno. È una cosa che mi ha sempre affascinato e che ho pensato spesso di ritrovare in tanti suoi scatti.
Mi piacerebbe farmi portare in giro per Palermo ma so che non posso farlo e così le chiederò di darmi dei suggerimenti e poi andrò da solo. Provo a scrivere alcune domande, cosa vorrei sapere da lei che ancora non ha detto?
Mi piacerebbe sapere dove mi porterebbe a magiare una buona pasta con le sarde e un cannolo; le chiederei di parlarmi del mare di Palermo e dei grandi alberi secolari di piazza Marina. Di un vicolo dove ha dato un bacio appassionato e infine di mostrarmi degli scatti del viaggio in Egitto.
Cammino e immagino il nostro incontro. 
Mi farebbe entrare nel suo salotto e una volta seduti l’uno di fronte all’altra si accenderebbe una sigaretta guardandomi dritto negli occhi. Mi direbbe di prendere il registratore e inizierebbe a raccontare. Il suo cane accucciato sotto la mia sedia chiederebbe ogni tanto qualche carezza e intorno a noi, alle pareti, ci sarebbero in grande formato “la vedova Schifani”, la bambina col pallone, un uomo steso a terra ucciso sulla rampa di un garage e accanto a questo il corpo di una giovane donna nuda in piedi. Resterebbero tutti ad ascoltarla in silenzio, mentre il rumore del traffico entrerebbe dalla finestra senza chiedere permesso.
“Io non ti ci porto a mangiare la pasta con le sarde, quella te la trovi da solo”. Poi mi direbbe che ha un “rapporto malato con questa città”, dalla quale tante volte è andata via per poi ritornarvi. Mi parlerebbe dei suoi nuovi progetti, dei personaggi su cui sta lavorando, come Pound, Che Guevara, Pasolini, la Yourcenar, Joyce e Rosa Parks e di tutti “gli invincibili”, come li chiama lei. Le chiederei se di questo gruppo potrebbe far parte anche De Andrè ma con un certo rammarico scuoterebbe la testa; “pur amandolo non ha accompagnato la mia vita come gli altri”. “Amo molto anche Paolo Conte” aggiungerebbe e io le domanderei se e in che modo lo fotograferebbe. “A me non vengono bene le foto agli uomini”, direbbe con la sua voce roca e un mezzo sorriso ma dai suoi occhi si potrebbe intuire che stia immaginando una foto: “intanto dovrebbe farsi crescere un po’ i capelli!”. 
Dopo parlerebbe del centro per la fotografia che cerca di realizzare ormai da quattro anni, “per lasciare un segno alla sua città e alla gente”.


Di sicuro non mi farebbe vedere le foto del suo viaggio in Egitto perché non le piacciono abbastanza o forse perché è ancora presto. Dopo aver acceso un’altra sigaretta: “Gli alberi di piazza Marina non mi hanno mai commossa, mentre mi fanno questo effetto la puzza dei vicoli e le donne sedute fuori dalle case con i bambini intorno e un uomo chissà dove”; e ancora di quando era assessore per cui “la cosa più eccitante era levare la spazzatura e ripulire la città”.
Nell’ultimo periodo sta girando il mondo ricevendo premi, facendo mostre, (come l’antologica che inaugura proprio in queste ore al museo MAXXI di Roma), realizzando libri ed interviste ovunque, senza sosta. Direbbe che è veramente schiacciata da tutte queste richieste, “più di una puttana di un vicolo di Palermo”. 
Racconterebbe tante cose con calma e generosità e alla fine mi chiederebbe: “Ti ho portato fuori strada!?”. Solo allora capirei che non ha detto nulla di ciò che le avevo chiesto e che è giunto il momento di andare via, ma sorprendendomi ancora una volta: “La pasta con le sarde la trovi al “Ferro di cavallo”, per il cannolo vai da “Macrì”, qui vicino. A me piace cucinare, cose siciliane; la caponata, ma soprattutto la pasta coi broccoli arriminati”. Si volterebbe verso la finestra e la vedrei restare concentrata per qualche istante, sempre con la sua sigaretta tra le dita; “per un bacio andrei a piazza Marina o a Mondello, magari all’alba con il mare davanti e la città alle spalle”.
Camminando sono arrivato al quartiere della Kalsa dove mi fermo per un caffé. Ripenso alle sue foto e ad un recente libro in cui dice che dopo le stragi del ’92 ha smesso di occuparsi di cronaca e di mafia. Descrive con grande intensità il giorno in cui andò all’ospedale dove il giudice Falcone e sua moglie erano stati portati restando in attesa, senza riuscire a muoversi, senza scattare una sola foto. Oggi sono proprio quelle foto mancate a farle più male perché sono cose che non può condividere con nessuno, visioni che restano solamente dentro di lei. Grazie a queste parole scopro ancora una volta il senso profondo di questa arte; non può esistere un occhio che vede, cerca, indaga e scopre e che comanda alle mani di scrivere una storia senza che poi un nuovo sguardo possa condividere. Cammino per la sua città e mi guardo intorno. Mi colpiscono i cani randagi che riposano ai lati delle strade come in certi paesi del medio oriente. Cerco negli occhi della gente di indovinare se qualcuno è innamorato; da un colore che indossa, da come si tocca i capelli, da una luce nello sguardo. Posso indovinare? Posso sbagliarmi. Letizia ha detto: “Ho imparato sbagliando e sbaglio ancora”. Quale frase migliore per degli allievi che vengono per imparare? “Io sono la fotografa della mafia e sono conosciuta per quelle venti fotografie, esattamente quelle”, che segnano come un tatuaggio la pelle della nostra storia. “Letizia, sarebbe bello se tra mille anni queste foto fossero un passato che non fa più male?”.
Raggiungo il teatro Massimo, ha smesso di piovere, l’asfalto si sta asciugando. Una fisarmonica sotto gli alberi racconta di canzoni dal sapore spagnolo, poi ci porta verso est. Un uomo riconosce il motivo e lo fischietta camminando, poi, di colpo la musica si interrompe. Abbasso gli occhi a terra e tra le grandi pietre della piazza trovo una biglia di vetro azzurra. La raccolgo e nel palmo della mia mano ha qualcosa di famigliare; è il colore degli occhi di mia cugina, quello di mia nonna siciliana e dei miei.
Sono le 17.00, è ora di andare da Letizia.

In foto: Letizia Battaglia inquadra Palermo dalla sua casa; il mare di Palermo a Mondello; uno dei ficus secolari di piazza Marina; un vicolo davanti a palazzo Abatellis nel quartiere Kalsa © Filippo Trojano

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