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strage pizzolungodi Luciano Armeli Iapichino
Quando la casualità, il destino e la malvagità fissano un appuntamento nella quotidianità degli innocenti, il risultato è una mostruosità di nome Pizzolungo. Una delle tante. Una su cui, a distanza di qualche decennio (in occasione, anche, del premio “Francesca Serio” conferito lo scorso 15 ottobre a Margherita Asta, a Galati Mamertino), è utile una breve riflessione.
Dai filmati del tempo, tante cose restano impresse nella coscienza. Non in quella di tutti.
Resta impressa, ad esempio, l’immagine di una macchia di sangue, molto ampia e intrisa di brandelli umani, sul lato più alto di un’abitazione.
Resta impressa nella coscienza, non in quella di tutti, l’immagine di un padre e un marito di 35 anni che cerca, mentre le bare bianche dei figli e quella della loro madre escono dalla chiesa, di allungare il braccio a sfiorare col dito quella moglie che l’ignominia dell’uomo ha definitivamente cancellato, insieme a Giuseppe e Salvatore, prima che venga affidata alla terra.
Resta impressa nella coscienza, non in quella di tutti, l’immagine di ferraglia (il motore, lo sterzo, una scarpa, il cratere dell’esplosione) disseminata in un raggio molto ampio a seguito della potente deflagrazione dell’autobomba destinata al giudice Carlo Palermo, una sorta di benvenuto speciale al giudice che da Trento si era appena trasferito in Sicilia, alla procura di Trapani, orfana del magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto, trucidato da Cosa Nostra nel 1983.
Ma questa è un’altra storia.
Tornando alla mostruosa mattina del 2 aprile del 1985, tra le tante immagini di quell’orrore, resta soprattutto impressa nella coscienza, forse non a tutti, quella di un libro, un sussidiario di scuola elementare, dal titolo emblematico: Un libro per crescere.
Quel titolo e quel manuale, rimasto integro, in quella sfortunata circostanza, qual è stata la strage di Pizzolungo, volevano suggerire, forse, con il sacrificio dei gemellini Asta cui il futuro è stato negato, un’esortazione al popolo di questa disgraziata terra (che a mio avviso disgraziata non lo è più per una sorta di atteggiamento d’inerzia verso il concreto e definitivo cambiamento) alla crescita morale, civile e socio-culturale; un’esortazione a costruire, individualmente e collettivamente, un senso critico degno di una cittadinanza matura, consapevole e non più disponibile a tollerare, per il futuro, vessazioni da parte del sistema. E sì! Il sistema! Un’entità tanto infernale, tanto astratta, quanto concreta. Un ingranaggio sociale perverso, rappresentato da tutti e alimentato da tanti che, pur di auto-conservarsi e auto-garantirsi impunità, interessi illeciti e forme di potere apparentemente percepite come propaggini democratiche, è disposto a immolare anche i bambini sull’altare della barbarie. Eppure il popolo di questa terra dopo Pizzolungo (e poco prima da Pippo Fava), sarà destinatario di altre severe sollecitazioni e stimoli funesti a “progredire” in termini di coscienziosità. Nel dicembre dello stesso anno, l’esortazione, suo malgrado, è quella di Graziella Campagna; seguirà quella del giornalista Mauro Rostagno (1988); poi quella di Rosario Livatino (1990); e ancora l’invito di Libero Grassi (1991); di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino (1992); di Beppe Alfano e Don Pino Puglisi (1993); del piccolo Giuseppe di Matteo (1996); e ancora, dell’avv. Giuseppe La Franca (1997) e, via via, quella di tanti altri. La mafia (e parte di qualche istituzione deviata), in altre parole, trucida madri, figli, imprenditori, sacerdoti, magistrati, giornalisti, avvocati, poliziotti; ovvero stermina la società siciliana in tutte le sue componenti sotto gli occhi di un popolo che pare, alla lunga, mostrarsi indifferentemente rassegnato.
L’ha fatto e lo continua a fare, dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori l’incoscienza di tanti.
Infatti, il nome Pizzolungo, oggi, a qualche siciliano che all’epoca era, per altro, maggiorenne, nulla richiama alla memoria e alla coscienza.
Eppure, all’invito, spesso rivolto a tanti, di udire la drammatica testimonianza di un familiare di vittima di mafia, e in questo caso di una donna che a Pizzolungo ha perso tutto, Margherita Asta, la coscienza di qualcuno ha emanato la “nobile” quanto inquietante sentenza: fati sempre i stissi cosi (organizzate sempre le stesse iniziative).
Ed è la coscienza, o a questo punto direi, la non-coscienza dei sostenitori del sempre i stissi cosi, che se aderisce alle iniziative promosse dall’impegno associazionistico antimafia, prestando, magari, ascolto e momentanea commozione alle toccanti testimonianze dei familiari delle vittime, finirà poi per cancellare l’intenso momento di riflessione, testimonianza e memoria nella pratica quotidiana, sul posto di lavoro, nella cabina elettorale, adottando corredi comportamentali subdoli, incivili, zavorranti e di certo poco costruttivi per la futura generazione siciliana.
È la coscienza del sempre i stissi cosi che dalla strage di Pizzolungo a oggi, ha eletto il fior fiore dei nostri rappresentanti, i “migliori”, (ovviamente con le dovute e sacrosante eccezioni), ovvero quelli che hanno cassato l’emendamento volto ad abolire il vitalizio ai politici ed ex deputati condannanti in via definitiva per mafia; gli stessi che hanno eluso e continuano a farlo il fisco e si rendono attori di altre squallide iniziative che mortificano quelle esortazioni pagate a caro prezzo da vittime oneste e innocenti.
In Sicilia capita (e ormai non solo nell’isola) che il misfatto, la testimonianza diretta dello stesso e, soprattutto, l’iniziativa del fare memoria, nella migliore delle ipotesi, se non viene “snobbata”, ha una sua ragione di essere, solo per un breve lasso temporale dopo la conclusione della stessa.
È questa una scomoda verità? È questa una provocazione? È questa la realtà delle cose? È questa l’ennesima certificazione del letargo dei Siciliani tanto a caro a Tomasi di Lampedusa? O forse, è semplicemente la vergogna indelebile dal DNA di un popolo incapace di associare alla bellezza della sua terra una società migliore, in cui il sangue non scorra nei torrenti e i governi, dalla periferia sino all’ARS, non siano sempre un concentrato di rifiuti umani controllati da qualche autorità centrale da leggersi come un invisibile verminaio mafio-massonico?
Al lettore, anche a quello indifferente, l’ardua sentenza!
Fortunatamente è una regola, questa, che comunque non vale per tutti! Non vale per il macrocosmo associativo della legalità (parola spesso abusata da certi professionisti dell’antimafia di facciata); non vale per i magistrati integerrimi, né per i rari avamposti dell’informazione libera e d’inchiesta.
Non vale per Margherita Asta che, lasciata in vita dalla casualità delle circostanze in quella disgraziata mattina del 2 aprile di molti anni fa, non lesina possibilità e aereo per raccontare da unica sopravvissuta ciò che il destino le ha cinicamente tolto. La sua testimonianza è, come quella invisibile di tanti (di Carlo Palermo, del suo inamovibile senso di colpa, degli agenti sopravvissuti alle stragi e che nessuno ricorda più, delle loro famiglie cui è cambiata la vita) il nutrimento più efficace da custodire gelosamente, nell’assuefazione generale delle coscienze, per un popolo spesso debole di memoria, spossato nel riscatto e povero del seme dell’umile dignità. Ancora, evidentemente le esortazioni non bastano.
Eppure, se il sussidiario dal titolo rilevante di Salvatore e Giuseppe Asta, Un libro per crescere, è rimasto integro, un motivo ci deve pur essere. 

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