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cucchi stefano bndi Enza Galluccio
Sei anni di attesa per le verità negate sulla morte di Stefano Cucchi.
Roma, sono le tre di notte del 22 ottobre 2009, il cuore di Stefano Cucchi cessa di battere in quella cella chiusa dell’Ospedale Sandro Pertini. La schiena rotta, le lesioni interne, la fame, la sete e il dolore intenso senza neanche potersi reggere in piedi. Era in custodia cautelare. Coinvolti alcuni agenti di polizia penitenziaria e alcuni medici del carcere di Regina Coeli.
Tutto era iniziato una settimana prima, Stefano era stato fermato per 21 grammi di hashish, tre dosi di cocaina e certamente aveva un problema con la droga come hanno in molti, ma anziché essere sostenuto aveva preso delle botte proprio dove si dovrebbero trovare garanzie e rispetto delle leggi.
Invece il giovane (alto m 1,76  e un peso di kg 43) durante l’udienza per direttissima, celebrata il giorno successivo al fermo, non si regge in piedi. Parla con difficoltà ed è pieno di lividi… Ma, paradossalmente, viene confermata la custodia cautelare.
Tutti ciechi e sordi, nessuno si accorge dello stato di salute del Cucchi già oltre il limite della sopravvivenza, infatti muore dopo pochi giorni.
Sono molte le persone indagate, ma tutte negano le violenze. Rimangono soltanto quei lividi e il silenzio della morte.
Nonostante ci siano diversi testimoni e anche chi dice di aver visto gli agenti picchiare selvaggiamente Stefano, si va nella direzione della morte per incuria, fame e sete.

Quindi, nel giugno del 2013 la condanna in primo grado per i quattro medici dell'ospedale Sandro Pertini a un anno e quattro mesi, per il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo con la sospensione della pena, e per un altro medico a 8 mesi per falso ideologico. Vengono assolti, invece, gli infermieri e le guardie penitenziarie. Questi, secondo i giudici della III Corte di Assise, non avrebbero in alcun modo contribuito alla morte di Cucchi e, siccome i lividi restano, l’assoluzione è per la solita vecchia “insufficienza di prove”.
I famigliari non si danno per vinti e vanno avanti. In modo particolare Ilaria, sorella di Stefano, che cerca ogni occasione per fare denuncia e sensibilizzare tutti gli organi d’informazione possibili.
Ma non basta. Il 31 ottobre 2014 la Corte d’Appello di Roma, a sorpresa, assolve tutti gli imputati, anche i medici.
La famiglia Cucchi va avanti e decide di presentare  ricorso alla Suprema Corte di Cassazione.
Il caso fa scalpore e comincia ad esserci maggior impegno. Finalmente si diffonde la notizia delle prime intercettazioni che danno una svolta. È l’ex moglie del carabiniere Raffaele D’Alessandro a confermare la tesi dell’accusa dicendo “Raffaele mi parlò di un violento calcio che uno di loro aveva sferrato al Cucchi. Preciso che Raffaele raccontava che il calcio fu sferrato proprio per provocare la caduta. Quando Raffaele raccontava queste cose rideva, e davanti ai miei rimproveri, rispondeva: Chillu è sulu nu drogatu è merda. (…) gliene abbiamo date tante a quel drogato…”
A questo punto, la Procura di Roma chiede una nuova perizia medico-legale e si cominciano ad ammettere i fatti: nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009 Stefano fu picchiato. Intanto arrivano anche altre testimonianze che metterebbero in luce una "strategia organizzata per coprire i militari in servizio".
Sei lunghissimi anni per iniziare a intravedere la luce lontana della verità e della giustizia che arranca, ma non demorde.
Dobbiamo dire grazie alla famiglia Cucchi se oggi ci è permesso di credere ancora possibile ciò che fino a ieri ci faceva sentire inermi e rassegnati di fronte alla mistificazione umiliante, pur nell’evidenza dei fatti.
Stefano è morto per mano di Stato, per le coperture e i silenzi concessi ai suoi funzionari, per l’umiliazione subita dai suoi famigliari. Ora possiamo cominciare a dirlo con voce più forte.

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