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ciotti libera 1''La battaglia di chi combatte ogni giorno''
di Silvia Fumarola
Si intitola "Sono Cosa nostra" il film dedicato alla vita e all'operato di Don Luigi Ciotti girato da Simone Aleandri. Lanciato in anteprima al cinema Nitehawk di Brooklyn, New York, il doc è anche un modo per celebrare i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie: "Rappresento un 'noi' perché Libera raccoglie 1600 associazioni".

Don Luigi Ciotti non smette di ripeterlo: «La legge c’è ma non basta, bisogna fare di più». È un’Italia che fa sperare quella raccontata nel documentario Sono Cosa nostra di Simone Aleandri: l’anteprima mondiale è ospitata nello storico cinema Nitehawk di Brooklyn, per iniziativa di Rai cinema. «Lo faremo girare nelle scuole e verrà trasmesso in tv, è un film da servizio pubblico, racconta l’impegno per la legalità, la battaglia quotidiana di chi combatte tutti i giorni» dice l’amministratore delegato Paolo Del Brocco.

Il film celebra i vent’anni della legge sulla confisca dei beni alle mafie, nata a fuor di popolo, con la raccolta di un milioni di firme, promossa dall’associazione Libera. Visita lampo a New York per don Luigi Ciotti, l’incontro col vescovo, la sera la proiezione. Speranza e resistenza sono le parole chiave di chi in Campania, Calabria, Sicilia, ma anche in Lombardia e in Piemonte, ha trasformato beni appartenuti ai boss in cooperative (500), mettendo a frutto casali e terreni, creando un circolo virtuoso e offrendo lavoro. La casa del jazz a Roma, i prodotti di Libera venduti nei negozi, la volontà di educare alla bellezza – anche quando sembra un’impresa disperata - perché nessuno possa dire un giorno: «Tu non hai fatto niente?». Antimafia sul campo.

Passione e rigore, una vita sotto scorta, Don Ciotti, è accolto dagli applausi: «Rappresento un “noi” perché Libera è un’organizzazione che raccoglie 1600 associazioni. Nel 1996 in Italia grazie a una legge voluta dai cittadini, i beni nella mani della mafia sono diventati beni condivisi».
Con il sacerdote c’è Daniela Marcone: il padre Francesco fu ucciso a Foggia  il 31 marzo 1995 era direttore dell’ufficio del Registro, aveva combattuto la corruzione. Il suo volto è finito su un murale, il nome sui vasetti di olive della cooperativa Pietra di Scarto di Cerignola. «Oggi la memoria di mio padre» racconta Daniela con orgoglio «non sono più sola a portarla avanti». Il riscatto e la dignità passano per il lavoro: immigrati, persone che hanno avuto qualche difficoltà nella vita, lavorano la terra e curano gli ulivi. Pietro Fragasso che coordina la cooperativa sociale non ha dubbi: «Per noi l’antimafia deve diventare economia».

Dopo la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio che lo riporta in Sicilia, Don Ciotti segue la strada di Pio La Torre, il sogno di togliere alla mafia i capitali rappresentati dalle proprietà immobiliari, terreni, aziende agricole. Il magistrato Francesco Menditto spiega come sia importante questa battaglia di civiltà e come sia lunga la strada per la confisca dei beni. «La cosa che dà più fastidio alle mafie» spiega don Ciotti «è che i beni privati diventino condivisi. I ragazzi devono mettersi in gioco, quando trovano parole sono di carne gli brillano di occhi, s’infiammano: non devono scoraggiarsi». A Quindici (Avellino) primo comune sciolto per associazione mafiosa, la villa confiscata al boss della camorra Graziano, oggi ospita il maglificio 100quindici passi. Ci sono state minacce e intimidazioni, contro la struttura furono sparati cinque colpi di pistola, ma il lavoro continua. A Castel Volturno (Caserta) Massimo Rocco ha creato il caseificio “Le terre di Don Peppe Diana” in un terreno confiscato al camorrista Michele Zaza; la cooperativa produce le mozzarelle di bufala, ma quando fu inaugurata i lavoratori venivano definiti “folli”.

I vigneti della cooperativa curata da Valentina Fiore a San Giuseppe Jato nascono nel ricordo di Placido Rizzotto, rapito e ucciso da Cosa Nostra nel 1948; la gente in un primo momento aveva paura di andare a lavorare su quelle colline, perché  occuparsi delle terre confiscate ai boss significa fare antimafia. La cascina di San Sebastiano da Po in Piemonte, intitolata al procuratore capo di Torino Bruno Caccia, (ucciso nell’83) e alla moglie Carla, è meta di pellegrinaggi, unisce un’intera comunità. Qui si fa il miele, si raccolgono le nocciole. Il bene apparteneva alla famiglia ‘ndranghetista dei Belfiore, responsabile dell’omicidio del magistrato. La figlia di Caccia ha scelta una foto dei genitori che ballano, un frammento di felicità e speranza per il futuro, come immagine simbolo per il casale. «Papà è stato il primo magistrato del nord ucciso per mano mafiosa» racconta, parlando del «dolore puro, fortissimo» provato il giorno dell’attentato.

Dal sorriso degli operatori della cooperativa Il Balzo che hanno trasformato un’edicola di Baggio (Milano) che faceva da quartier generale per la ‘ndrangheta in un centro per ragazzi diversamente abili all’orgoglio di gestire un bar , quest’Italia liberata grazie a Don Ciotti fa bene al cuore, ma niente è facile. È lui stesso a lanciare l’allarme: «C’è ancora tanta illegalità. Nei momenti di crisi i mafiosi hanno un’immensità di denaro da riciclare, dobbiamo essere più scaltri, più attenti e ricordarci che gli affari li hanno sempre fatti anche al nord. La confisca dei beni deve essere trasparente: ci sono sempre paroline, virgole, punti. La prima riforma da farsi in Italia è quella delle nostre coscienze». E spiega come il potere dei segni ( caro al codice della mafia) sia importante, così diventa un gesto forte quello della Nazionale che va a giocare a Rizziconi, in Calabria, nel campetto di calcio che la ‘ndrangheta per anni non voleva venisse utilizzato.  

«Questo è un documentario che riassume piccoli esempi» dice don Ciotti «è ancora troppo poco, sono stati confiscati solo 17mila beni. Se si uniscono le forze – magistrati e società civile – è possibile guardare al futuro. La lotta alla mafia ha bisogno di lavoro e scuole, è la cultura che dà la sveglia alle coscienze, è importante conoscere. A marzo del prossimo anno saranno vent’anni della legge 109. Il sistema legislativo in atto è inadeguato, si potrebbe fare di più. Questo governo e quello precedente hanno creato una commissione per vedere come la legge della confisca dei beni può essere migliorata, attualmente i progetti sono  arrivati alla Camera e in Senato. Il primo elemento inserito è il sequestro dei beni dei corrotti, non solo dei mafiosi. L’agenzia che opera deve essere potenziata, bisogna agire anche sui beni aziendali: quello finora è stato un fallimento».

Tratto da: repubblica.it

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