INTERVISTA
di Elena Del Drago - 1° agosto 2015
Letizia Battaglia compie ottant’anni e anche un paese solitamente ingrato, incapace di riconoscere le proprie glorie come il nostro, festeggia le sue fotografie, scatti diventati icone di alcuni momenti della nostra storia patria. Una parte degli Anni 70 e tutti gli Anni 80 a Palermo, quando come fotografa del quotidiano L’Ora, svelò a tutto il paese l’abisso della violenza mafiosa, con una capacità di immergersi nella realtà sociale e un’adesione emotiva ai soggetti rappresentati, che le rende immagini indimenticabili. Tanto il Ragusa Foto Festival che si è da poco concluso, quanto la personale intitolata «Qualcosa di mio» che si è aperta invece il 30 luglio a Favignana, nell’ex stabilimento Florio, partono proprio da quegli scatti «forti come degli editoriali» per esplorare la fotografia testarda di Letizia Battaglia.
Mostre che inaugurano, altre appena terminate, progetti: c’è oggi davvero un grande interesse intorno alla sua fotografia...
«È incredibile che in questa età adulta, ad ormai 80 anni, ci siano molte esposizioni dedicate al mio lavoro: mi stupisco un poco perché sono sempre le stesse fotografie grosso modo, quelle della cronaca, che sono ancora poderose perché indicano anche un presente, sebbene le abbia scattate tanti anni fa. Poi però ci sono le più recenti e l’insieme evidentemente funziona».
In entrambe le mostre siciliane non mancano gli scatti di cronaca, immagini che raccontano più di qualsiasi testo anche quando cercano a lato della scena principale. Qual era la sua tecnica?
«Io sbagliavo e sbaglio ancora esposizione, tempi, con le macchine fotografiche non ci so fare, ma insisto così tanto che poi alla fine le foto buone arrivano...»
Accanto alle fotografie storiche, ci sono serie più recenti che accostano scene terribili alla bellezza. Perché?
«Dal 2013 ho lavorato all’inserimento davanti alle foto di cronaca dura di immagini femminili, donne, bambine oppure tratte dalla natura, perché volevo spostare il punctum, volevo dimenticare tutta questa storia di violenza e a un tratto mi sono seduta e mi sono chiesta come sia riuscita ad attraversarla».E cosa si è risposta?
«Sono stata angosciata, male tanto da dover andare fuori, per un anno e mezzo sono stata a Parigi: non voglio finire con l’angoscia mi dicevo. E rinfrancata dalla lontananza, quando mi sono chiesta cosa mi abbia sostenuta in tutti questi anni, mi è venuto in mente che nel 1971 avevo incontrato Pier Paolo Pasolini e l’avevo fotografato, l’avevo amato e l’avrei fatto mio, tanto l’amavo. Ricordo la sua presenza forte, commovente, ma mentre lo fotografavo piena d’amore uscivano fuori odio e rancore, veniva accusato di fare pornografia.
Così è nata la serie degli Invincibili, un pantheon privato composto da 14 figure sinora: da James Joyce a Ezra Pound, da Marguerite Yourcenar a Rosa Parks...
«Sì, credo di essere stata fortunata perché nel corso della mia vita ho incontrato persone verso le quale ho potuto provare riconoscenza, oppure me le sono inventate, come James Joyce che non ho mai conosciuto. Ma queste fotografie sono soltanto un tentativo, una “piccola cosa” che spero possa dare tranquillità».
Questa ricerca della bellezza le ha permesso di convivere meglio con tutto ciò che hai visto?
«Non posso dimenticare le urla delle donne, il pianto loro, dei figli, le umiliazioni, non posso dimenticare che in questa terra avara di persone meravigliose abbiamo ucciso proprio le persone meravigliose. Non credo che questa mia vita piena di tanti doni, ma altrettante sofferenze, possa finire con la certezza che in un futuro le cose cambieranno».
Tratto da: La Stampa del 1° agosto 2015
In foto: 1986. Nella spiaggia dell'Arenella la festa è finita, © Letizia Battaglia, e la fotografa in uno scatto di Francesco Francaviglia