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24-maggio-1915-piavedi Salvo Vitale - 26 maggio 2015
In prima elementare il maestro ci insegnava a cantare la canzone del Piave, assieme a Fratelli d’Italia, alla quale canzone ha cercato di insidiare il ruolo di inno nazionale. Da quei versi sembrava che i nostri valorosi soldati andassero a “far contro il nemico una barriera”, contro il nemico invasore, lo “straniero”, l’odiato austriaco di sempre, anche se alleato, che voleva violare i patrii confini e che c’era riuscito quando “in una notte triste si parlò di tradimento”. Non ci fu nessun tradimento, nessun assalto, ma solo una piroetta a 360 gradi dell’Italia che ignorando le sagge proposte del vecchio volpone Giolitti (“con le trattative diplomatiche si poteva ottenere “parecchio”) si lasciò ubriacare dall’orgia interventista, agitata anche dal voltafaccia di Mussolini, da socialista a interventista, e si lasciò incantare dalle promesse dell’Intesa russo-anglo-francese, alla quale serviva un alleato che alleggerisse la pressione sui vari fronti, soprattutto su quello francese e quello russo. La balorda conduzione militare del generale Cadorna, portata avanti con grande spregio di vite umane, sulle pietraie del Carso ben difese dalle mitragliatrici austriache, il ricorso alla “decimazione”, alla fucilazione di uno ogni dieci nei casi di lamentele, indisciplina, insubordinazione o diserzione, la costante criminalizzazione dei socialisti, spacciati per traditori o disfattisti, l’incapacità di individuare i punti deboli del nemico e le eventuali strategie d’attacco o di difesa, condussero alla sconfitta di Caporetto e alla sua sostituzione con Diaz il quale chiamò in guerra i “ragazzi del ‘99” e riuscì a dare il colpo di grazia a un esercito ormai ripiegante su tutti gli altri fronti europei. Conclusione: un sostanzioso arrotondamento di confini, ma non tutta la Dalmazia, perché lì era nato un nuovo stato, la Jugoslavia.

Di là lo starnazzamento di D’Annunzio e Mussolini sulla “vittoria mutilata”, lo squallido episodio di Fiume, il giudizio impietoso sul governo liberale, come composto da incapaci, la mobilitazione socialista nelle fabbriche, la paura rossa, le scissioni a sinistra, il listone fascista e il regime. Alla domanda: se l’Italia non fosse entrata in guerra ci sarebbe stato il fascismo? Si potrebbe rispondere di no, ma la storia non è fatta di “se”. Di fatto non avremmo avuto 650 mila morti, un milione e mezzo di feriti, incalcolabili danni di guerra e forse, ma chi può dirlo, ai dieci milioni di morti della prima guerra mondiale non sarebbero seguiti i 52 milioni della seconda. Quello che non si capisce è il ricordo, per alcuni aspetti la “celebrazione” dell’anniversario dell’entrata in guerra: si può concordare (sarebbe meglio di no), sulla  festa per l’anniversario della vittoria, il 4 novembre, ma la ricorrenza dell’entrata in guerra, come se nell’entrare in guerra e in una guerra condotta male ci sia qualcosa da celebrare o ricordare, fosse anche l’improbabile appello alla pace universale fatto da Mattarella, è qualcosa che lascia perplessi, se non sbigottiti. Ecco perché in quel lontano 24 maggio 1915, dopo due anni di neutralità, il Piave non “mormorava calmo e placido al passaggio”, ma brontolava non riuscendo a spiegarsi il perché di tanta coglioneria decisa da Salandra con il Patto di Londra, all’insaputa del parlamento e condivisa dal re.

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