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stazio-adriana-webdi Adriana Stazio - 26 aprile 2015
Oggi l’Italia che chiede verità e giustizia si è svegliata con una brutta notizia. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione avrebbe rigettato il ricorso presentato dall’avvocato Giorgio Carta, confermando la condanna del maresciallo Saverio a sei mesi con sospensione condizionale della pena. La notizia non trova conferma ufficiale da parte del difensore, ma è uscita su vari organi di stampa da sempre contrari al processo sulla trattativa Stato-mafia.

Il maresciallo Saverio Masi, attualmente caposcorta del pm Nino Di Matteo, era finito sotto processo per tentata truffa, falso materiale e falso ideologico per aver chiesto l’annullamento di una multa di appena 106 euro contratta con un’auto privata mentre, nell’ambito delle sue indagini, si recava ad incontrare un confidente: il maresciallo chiese come da prassi in uso l’annullamento, ma quando la polizia stradale chiese conferma al comando, i superiori non confermarono e lo denunciarono per falso. I giudici della Corte d'Appello di Palermo lo avevano assolto dall'accusa di falso ideologico sancendo che effettivamente Masi era in servizio quando prese la multa, ma confermarono la condanna per i restanti capi di imputazione. Una decisione che fece molto discutere in quanto la stessa Corte aveva rigettato la richiesta di riapertura dell’istruzione dibattimentale presentata dai nuovi legali del maresciallo per permettere l'ammissione di nuove prove a discarico che avrebbero dimostrato l'innocenza dell'imputato e la mancanza di dolo. Senza scendere nei dettagli, non possiamo non notare come sia paradossale che il maresciallo sia stato denunciato per aver cercato di farsi togliere impropriamente una contravvenzione di appena 106 euro, mentre sono svariate migliaia di euro i soldi che il maresciallo Masi ha rimesso tra straordinari non richiesti e spese di cui avrebbe avuto diritto al rimborso, sostenute di tasca sua .

Una vicenda giudiziaria che s’intreccia con quella della trattativa Stato-mafia: Masi, all'epoca in servizio al Nucleo Investigativo del Comando Provinciale di Palermo, si era, infatti, scontrato con i suoi superiori in quanto, secondo quanto da lui stesso denunciato, sarebbe stato ostacolato nella cattura prima di Bernardo Provenzano e poi di Matteo Messina Denaro. Denunce che sono tuttora oggetto d’indagini da parte della procura di Palermo e che fanno del maresciallo Masi anche un testimone di vicende che s’inseriscono nell'ambito più vasto delle indagini sulla trattativa. Secondo quanto raccontato da Massimo Ciancimino, testimone oculare di quelle vicende e teste chiave dell'accusa, dopo la strage di via D'Amelio, dalla prima fase della trattativa che aveva Riina come terminale da parte di Cosa Nostra (la fase del papello) si era passati ad una nuova fase che vedeva sempre come intermediario Vito Ciancimino ma che aveva come interlocutore mafioso Provenzano e prevedeva la cattura di Riina il cui posto a capo di Cosa Nostra sarebbe stato preso dallo stesso Binnu che avrebbe garantito il ritorno alla strategia della sommersione e ad una mafia non contrapposta allo Stato. In quest’ottica sono da inquadrarsi, secondo le tesi dell'accusa, le coperture alla latitanza di Provenzano che già sono state oggetto di un processo nato dalle dichiarazioni del colonnello Michele Riccio, conclusosi in primo grado con una discussa assoluzione e oggi pendente davanti alla Corte d'Appello.

Ma Saverio Masi è un testimone scomodo anche perché raccolse le confidenze di un suo collega, l'allora capitano Angeli, che aveva condotto la perquisizione nel febbraio 2005 a casa di Massimo Ciancimino in cui non era stato sequestrato il papello e le sue dichiarazioni costituiscono dunque un importante riscontro alle dichiarazioni dello stesso Ciancimino. Per questo motivo il maresciallo è stato ascoltato come teste al processo Mori e sarà ascoltato nel processo sulla trattativa.

Ecco perché al maresciallo Masi dovevano comminare un trattamento esemplare, che lo allontanasse dal suo lavoro dove dava fastidio e che fosse contemporaneamente da monito a chiunque – e sono tanti – avesse potuto pensare di opporsi a un sistema così potente e raccontare alla magistratura episodi simili a quelli denunciati da Masi. Per incastrarlo e allontanarlo dalle sue indagini non hanno trovato di meglio che la richiesta di annullamento di un verbale di 106 euro,  preso durante il servizio, come sancisce la stessa sentenza di condanna.

Una sentenza che sarà utile anche per cercare di delegittimarlo come teste, così come in precedenza è stato fatto con il colonnello Michele Riccio. E’ d’altra parte una strategia ben rodata cui stiamo assistendo quella di subissare i testimoni più scomodi di queste scabrose vicende di procedimenti giudiziari, che sortiscono molteplici effetti: delegittimano, fungono da monito ad altri eventuali testimoni e costringono a spendere soldi ed energie per difendersi, togliendo serenità. Il caso più eclatante è quello del superteste, Massimo Ciancimino, (di cui ha parlato anche l’ex pm Antonio Ingroia, oggi avvocato) subissato di processi per calunnia e altro. Ma non diverso è il caso del maresciallo Masi, che, oltre alla denuncia e alla condanna per la contravvenzione, si è visto piovere addosso denunce e processi per diffamazione ai danni dei suoi superiori. Addirittura insieme a lui e a numerosi giornalisti che avevano raccontato il caso, è stato rinviato a giudizio anche il suo legale, l’avvocato Giorgio Carta che, così come il suo assistito, prosegue nella sua battaglia di legalità e giustizia non lasciandosi intimidire. Lo stesso Nino Di Matteo, nel ribadire la sua stima e la sua fiducia nel maresciallo Masi, aveva dichiarato: “Personalmente mi sembra singolare che mentre, come è noto, a Palermo si cerca di verificare la fondatezza delle sue denunce, un'altra autorità giudiziaria incrimini per diffamazione gli autori delle suddette denunce e perfino i difensori e i giornalisti che la hanno rese note”.

Al di là delle motivazioni della sentenza, che siamo in attesa di leggere, il maresciallo Masi paga per aver fatto fino in fondo il proprio dovere di uomo dello Stato e di cittadino. Ora, con questa condanna, a causa della natura del reato, rischia la destituzione dall’Arma, ma sono ormai nove anni che non si trova più ad investigare (su Messina Denaro ed altri latitanti) ed è questo ciò che deve più di tutto far riflettere e indignare.

Venerdì, mentre la Suprema Corte decideva il suo destino, il maresciallo Masi era come sempre a fare il suo dovere, scortando e garantendo la sicurezza del magistrato più a rischio d'Italia, condannato a morte da Riina, perché ha toccato gli stessi fili dell'alta tensione che hanno toccato testimoni come Ciancimino e come lo stesso Masi.

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