La relazione della Commissione d'inchiesta
di Stefano Perri - 6 marzo 2015
Sono decine, centinaia gli atti intimidatori compiuti ogni anno nei confronti degli amministratori pubblici in tutta Italia. Lettere minatorie, incendi dolosi ad automobili e portoni, ferimenti ed omicidi. E' un vero e proprio bollettino di guerra quello che viene fuori dalla relazione della Commissione d'inchiesta istituita al Senato sul ''Fenomeno delle intimidazioni nei confronti degli amministratori locali''. Dieci mesi di lavoro, sotto la guida della Senatrice Doris Lo Moro, che hanno ricostruito una mappatura precisa del fenomeno delle intimidazioni a Sindaci e consiglieri comunali di centinaia di comuni italiani. Complessivamente ad essere colpiti da atti minatori sono l'8% dei municipi italiani. Un'enormità. Non solo piccoli comuni, ma anche grandi città. Quasi la metà delle intimidazioni avviene in comuni con popolazione superiore a 15mila abitanti, ma una fetta cospicua accade anche in territori più piccoli, compresi tra 5 mila e 10 mila residenti.
Un esercito di sindaci in trincea che, seppure con connotati ed in contesti diversi, costituiscono la prima linea dello Stato sul fronte delle infiltrazioni mafiose nelle amministrazioni locali. Una battaglia durissima, che ogni anno miete le sue vittime. Tra il 1974 e il 2013 sono stati ben 132 gli amministratori uccisi. Un'escalation di violenza sempre crescente, che ha subito una frenata solo in coincidenza con gli anni delle stragi di mafia tra il '92 e il '93. La provincia più colpita è quella di Napoli, con 22 amministratori uccisi. Subito dopo Reggio Calabria, con 17 vittime e Palermo con 13. Tre delle principali capitali delle mafie italiane unite dal sottile fil rouge delle infiltrazioni mafiose nella pubblica amministrazione, che quasi sempre si accompagnano agli atti intimidatori nei confronti dei rappresentanti degli enti locali.
Più del 50% degli amministratori uccisi sono consiglieri comunali, il 20% sono assessori e quasi il 15% sindaci. Sono loro il primo avamposto dello Stato sul territorio. Stretti tra la responsabilità di dover far girare la macchina amministrativa e le aspettative della gente, che dalle istituzioni si sente quasi sempre abbandonata.
Nel 2013 le denunce presentate sono più di un migliaio. L'85% di esse sono rivolte verso ignoti e quasi la metà sono riconducibili, secondo gli accertamenti operati dalla Commissione d'inchiesta, ad attività inerenti all'incarico amministrativo.
Non sempre è possibile provare la mano mafiosa come mandante degli atti intimidatori. Solo il 13,7% delle intimidazioni è stato direttamente ricondotto alla matrice della criminalità organizzata.
Un fenomeno che nelle regioni del Sud diventa devastante. Due episodi su tre avvengono da Napoli in giù. Lì dove lo Stato è più debole le mafie rimangono padrone del territorio. E naturalmente delle istituzioni che lo governano.
Il caso calabrese
La scorsa estate la Commissione d'inchiesta si è occupata del caso calabrese. Proprio in punta allo Stivale si registra una delle manifestazioni più cruente del fenomeno. Nella seduta tenuta a Catanzaro i senatori hanno ascoltato i vertici delle forze dell’ordine e i Sindaci dei territori più interessati dal fenomeno, da Vibo a Botricello, da San Giovanni in Fiore a Diamante, da Isola Capo Rizzuto a Ferruzzano.
Il comandante della legione dei Carabinieri della Calabria Aloisio Mariggiò parla di un fenomeno ”fortemente culturale”, di una ”presenza endemica” di episodi intimidatori. Non solo diretti verso amministratori pubblici ma ”diffusi ad ampio spettro”, che lasciano intuire un ”contesto sociale che, pur non favorendo il contesto mafioso, implica un esercizio diretto e arbitrario delle proprie ragioni con una sistematica volontaria esclusione degli strumenti offerti dal diritto”.
”Esercizio diretto e arbitrario delle proprie ragioni”. In Calabria, insomma, si tende a farsi giustizia da sé, ad ”escludere gli strumenti offerti dal diritto”. Per il Prefetto di Catanzaro Raffaele Cannizzaro ”tutta la regione, quanto a comportamenti di illegalità diffusa, rivela una situazione allarmante”.
Basta davvero poco per arrivare a colpire un amministratore pubblico. Significativa in questo senso è l’audizione del sindaco di Rosarno Elisabetta Tripodi. ”Sulla base della mia esperienza – ha raccontato il Sindaco alla Commissione – posso dire che talora anche opporre un diniego per un posto al cimitero, cioè per poter edificare dei loculi, può costare una intimidazione”.
Il ricorso alle intimidazioni è dunque in Calabria una pratica usuale. E capita sovente che a farne le spese, per un motivo o per un altro, siano sindaci ed amministratori locali, primo avamposto statale sul territorio, quindi più soggetto ai tentativi di infiltrazione da parte della criminalità organizzata. La pervasività della ‘ndrangheta è dimostrata – secondo la Commissione – dalla ”circostanza che dal 2009 la Calabria si conferma ininterrottamente la regione con il più alto numero di scioglimenti di consigli comunali per infiltrazioni mafiose”. ”Il pervasivo e capillare controllo di alcune aree del territorio da parte della ‘ndrangheta – scrivono i senatori – risulta decisivo nella determinazione dei processi sociali ed economici e dell’influenza sulle attività della pubblica amministrazione”.
Eppure non tutte le intimidazioni provengono da ambienti ‘ndranghetisti. Il Comandante dei carabinieri Mariggiò sostiene che pensare ciò ”sarebbe fuorviante sia a livello investigativo sia per l’analisi del fenomeno stesso”. Ma - si legge ancora nella relazione della Commissione - ''qualunque sia la natura dell’intimidazione, anche quella commessa dal singolo cittadino, è ricorrente che per la materiale esecuzione della stessa si ricorra a manovalanza della criminalità organizzata”.
Dunque, secondo gli atti della Commissione, se da un lato è vero che ”il fenomeno non può essere totalmente ricondotto al mondo della criminalità organizzata, dall’altro, è innegabile il radicamento nel territorio e l’esercizio costante del controllo sulla rete delle relazioni sociali, economiche ed istituzionali da parte della ‘ndrangheta”.
Quello che colpisce in ogni caso è il ricorrente uso dell’intimidazione come strumento di relazione sociale. ”Per capire il fenomeno – spiega il Prefetto di Reggio Calabria – non bisogna analizzare gli atti singolarmente, ma all’interno del contesto in cui vengono compiuti”.
A pesare è sopratutto il contesto sociale nel quale maturano gli atti intimidatori. Ne parla il Prefetto di Crotone Maria Tirone. “Crotone è la penultima provincia d’Italia per reddito pro-capite. I problemi relativi a persone inoccupate da tempo o che godono di sostegno al reddito, sono assolutamente importanti e rilevanti anche rispetto al fenomeno degli atti intimidatori nei confronti degli amministratori locali”. D’accordo con lei anche il Prefetto di Cosenza, che ha denunciato sul territorio ”“una disoccupazione ed un disagio sociale molto elevati. I sindaci e gli amministratori locali, quindi, sono il punto di riferimento diretto ed immediato cui rivolgersi in maniera immediata e diretta”, e il procuratore della Repubblica di Cosenza Dario Granieri, che ha affermato che gli atti intimidatori "devono essere inquadrati e inseriti in un contesto caratterizzato dalla terribile disoccupazione che affligge la gente. Alla disoccupazione si aggiunge la frustrazione delle persone e, quindi, a volte, un modo abnorme di reagire alla delusione rispetto a promesse o aspettative su cui queste persone avevano fondato le loro speranze".
L’intimidazione nei confronti della pubblica amministrazione è dunque la punta di un enorme iceberg sommerso. Quello del degrado, della povertà, del bisogno. Lo stesso contesto all’interno del quale la ‘ndrangheta recluta il suo esercito.
La difficoltà principale, evidenziata nelle audizioni dei vertici delle forze di polizia e di sicurezza, è che manca la collaborazione da parte delle vittime. Sindaci e Amministratori sono restii a parlare delle intimidazioni subite. E’ ancora il comandante regionale dei carabinieri a chiarirlo. ”Sono poche le vittime che danno fattiva collaborazione. Qualunque sia la matrice dell’atto, gli operatori di polizia giudiziaria sprecano tanto tempo nell’acquisire, quasi sempre in via indiretta, utili elementi di valutazione che si scopre essere sempre stati a conoscenza della vittima”.
L’ombra dell’omertà copre ancora le intimidazioni. Stupisce che anche Sindaci e amministratori, soggetti che costituiscono l’ossatura istituzionale a livello di base, siano reticenti alla collaborazione. Secondo il procuratore della Repubblica di Reggio Calabria molte indagini ”evidenziano che gli amministratori locali spesso abbassano la testa. La ‘ndrangheta è riuscita a conseguire il livello attuale perché ha avuto l’accordo con coloro che avrebbero dovuto costituire la barriera contro di essa”.
La via d’uscita, in qualche modo, esiste. Per il Procuratore di Vibo la ricetta sta nel ”trasferimento di dati e di elementi conoscitivi che diventano assolutamente fondamentali, ferme restanti le prerogative del segreto dell’indagine e di tutto il resto. La presenza dello Stato è la presenza di uno Stato che fa gruppo, che fa rete: se riusciamo in concreto a realizzare un modello di questo genere, può darsi che qualche risultato in più riusciamo ad ottenerlo”.
Un ultimo passaggio fondamentale, secondo la Commissione, è la possibilità per gli investigatori di utilizzare strumenti più efficaci per la ricerca della verità, come le intercettazioni. Sul piano organizzativo è stata poi suggerita l’opportunità di inserire questa tipologia di reati, per le caratteristiche delle persone offese, tra i criteri di priorità che ciascun ufficio giudiziario deve periodicamente indicare.