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di Enrico M. Calagna - 18 gennaio 2015

Una storia lunga 24 anni. La vicenda di Peppino Impastato ricostruita attraverso il racconto dei compagni, ma anche I'ostinazione di una madre che chiede giustizia per l'uccisione del figlio. I tanti depistaggi, l’inchiesta e il processo che ha condannato nel 2002 Gaetano Badalamenti all’ergastolo come mandante. C'è tutto questo e non solo in “Cento passi ancora", l'ultimo libro di Salvo Vitale, edito da Rubettino, presentato ieri all'Auditorium del Liceo scientifico. La storia di Peppino, ucciso nel maggio del 1978 a Cinisi, è ricostruita dal professore Vitale, amico storico e compagno di tante lotte sociali. “E’ una battaglia di legalità vinta. La vicenda giudiziaria si può ormai dire complessivamente chiusa”, spiega Salvo Vitale. “Di aperto c’è solo il fatto che nel momento in cui è stata fatta una perquisizione illegale alla casa di Peppino Impastato sono stati portati via quattro sacchi di materiali che sono scomparsi nel nulla. Per cui - prosegue - se Peppino avesse altri scritti non Io sapremo mai”. Giustizia è fatta e Ia figura di Peppino resta un riferimento contro ogni sorta di prevaricazione. “Peppino - aggiunge - con le sue idee ci dice che la lotta contro la mafia è qualcosa che deve costantemente impegnarci se vogliamo una Sicilia nuova e diversa".

Presente alla presentazione del libro il sostituto procuratore della Dna Franca Imbergamo. E’ lei che ha istruito il processo che nel 2002 ha portato alla condanna di Gaetano Badalamenti all’ergastolo e di Vito Palazzolo a 30 anni come mandanti. Gli attacchi di Peppino Impastato dai microfoni di Radio Aut contro gli affari sporchi del boss Gaetano Badalamenti gli costarono la vita.
Ma Franca Imbergamo avverte: “Quello di Peppino Impastato non è un omicidio di mafia come tanti altri".
Sulla vicenda grave il depistaggio di servitori dello Stato. “Istituzioni che non hanno il diritto di fregiarsi come tali, tra le forze dell’ordine e la magistratura, su questo omicidio hanno lavorato aI contrario per coprire le responsabilità di chi l’aveva commesso, ordinato, voluto, cercando di fare passare su Impastato la calunnia di essere un terrorista suicida che sceglie l'attentato alla linea ferroviaria. Il depistaggio serviva a tante cose. Serviva ad alimentare il mito del terrorismo, gestito in una certa maniera contro la libertà democratica del paese. Serviva a coprire Ie responsabilità non tanto del singolo mafioso, ma di gruppi di potere" - tuona il magistrato, che aggiunge: “I depistaggi sono il tentativo spesso riuscito di occultare verità scomode. E quella di Cosa Nostra non è una storia criminale legata al territorio, al pizzo, alle estorsioni o qualche altro fenomeno di aggressione al patrimonio. E’ Ia storia di un controllo sul territorio di un potere che non può fare a meno di una interlocuzione continua con i poteri dello Stato. In questa indagine non ci siamo imbattuti solo nelle cosiddette coppole, ma troviamo personaggi delle istituzioni".
Il libro ha più registri narrativi, come evidenzia la professoressa Caterina Brigati, che ha fatto un'analisi del libro, mentre Ia collega Silvana Appresti ne ha letto alcune pagine. "Ci trovi nel lavoro di Vitale più letture - afferma Caterina Brigati - non solo una ricostruzione fedele degli avvenimenti, analisi della società borghese dell’epoca, riflessioni su scelte di vita, ma anche una ricostruzione di sensazioni ed emozioni che diventano poesia. Ecco allora che “il mare diventa lo specchio in cui riflettersi, profondità in cui annegare le proprie illusioni, ma anche bussola che riporta alla realtà. E accanto al mare c'è un anonimo marinaio di cui non si conosce altro se non il nome di battesimo, Pietro, che è Iì ad indicare qual è la direzione per ritrovare se stessi".

Tratto da: qlnews.it


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