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tribunale-palermodi Sara Donatelli - 13 ottobre 2014
Siamo nel paese dei sordi, dei muti e dei ciechi. Siamo nel paese degli smemorati e dei medium che parlano con i morti arrogandosi il diritto di dire ciò che loro avrebbero detto, fare ciò che loro avrebbero fatto o, ancor peggio, pensato. Siamo nel paese di presunti giornalisti che parlano di presunta trattativa. Siamo nel paese delle finte democrazie, delle finte repubbliche e dei veri re che dominano il paese, regolandone gli equilibri. Siamo nel paese delle prescrizioni volutamente spacciate per assoluzioni. Di politici mafiosi e di mafiosi politici. Di latitanze che diventano viaggi per curarsi. Siamo nel paese delle case regalate e di politici che non sanno nulla al riguardo. Siamo nel paese dei negazionisti. O quando qualcosa non la si può più negare allora la si giustifica. Siamo nel paese in cui un Presidente del Consiglio sostiene l’inutilità dell’art. 18, seguito dai compagni che ne parlano come un “problema psicologico più che reale”. E a tutto questo bisogna dire basta. L’assuefazione al malaffare porta inesorabilmente ad una paralisi mentale spesso irreversibile. Seguita da una vera e propria paralisi fisica e reattiva, che impedisce di scendere in piazza di fronte allo stupro che viene fatto quotidianamente nei confronti della nostra Costituzione. Quella stessa Costituzione su cui giurarono Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Rocco Chinnici e tanti altri.

La volubilità dell’opinione pubblica porta quest’ultima ad essere spudoratamente ingannata tramite il micidiale potere persuasivo dell’ informazione. Troppe volte in mano al sistema, quello stesso sistema che tramite varie testate giornalistiche e programmi televisivi continua incessantemente un pressing mentale nei confronti della società civile. La mafia campa sull’ignoranza, sull’indifferenza, sulle non-reazioni. E l’ ignoranza, ad oggi, viene diffusa a reti unificate. Si respira una vera e propria incapacità di fondo di azione e reazione da parte di quasi tutto il popolo italiano e soprattutto della quasi totalità della classe politica, rimasta sostanzialmente immutata negli ultimi trent’anni. Una classe politica che ha utilizzato ed utilizza ancora oggi la mafia come un vero e proprio “instrumentum regni”, seguendo le linee guida presenti nel papello e nel Piano di Rinascita Democratica della P2 di Licio Gelli. Lo scopo dello stato-mafia è solo e soltanto uno: la normalizzazione del fenomeno. La mafia non deve assolutamente perdere quel consenso che è da sempre stato la base sulla quale essa continua a crescere, pur cambiando sembianze. Bisogna dunque neutralizzare i magistrati. Non sangue: mortifichiamoli, isoliamoli, distruggiamoli, annientiamoli, disarmiamoli. Creiamo ad arte delle morti tutte interne al palazzo dei veleni.
Un grande palude dove troppo spesso si antepongono le rivalità di carriera e le invidie alla ricerca della verità e della giustizia e le faide interne spianano la strada a quel processo di delegittimazione che ormai da più di vent’anni è tristemente onnipresente. In questo sporco gioco scendono in campo puntualmente e prepotentemente “i professionisti delle carte a posto”, così come li definì Alfredo Morvillo, cognato di Giovanni Falcone. Storia vecchia questa. Storia risalente al 1987, quando Caponnetto lascia l’ Ufficio Istruzione con la volontà (più volte espressa) di cedere il posto a Giovanni Falcone, suo erede naturale. No. Giovanni Falcone no.
E dunque eccoli, quei professionisti delle carte a posto che entrano a gamba tesa su Falcone tirando fuori dal cilindro Antonio Meli, nascondendosi vigliaccamente dietro il sacro principio dell’anzianità. E così il 19 gennaio 1988 Meli vince e si posiziona comodamente a capo dell’Ufficio Istruzione. Ma attenzione. Siamo solo al primo tempo, bisogna giocare il secondo round. Ecco dunque che si decide di applicare nel modo più miope possibile il principio della competenza territoriale: basta inchieste di mafia centralizzate. Sparpagliamole un po’ qua e un po’ la. E quando Paolo Borsellino, il 18 luglio 1988, dirà in un dibattito pubblico ad Agrigento che “è in corso una smobilitazione dell’antimafia” non tardano ad arrivare le classiche accuse di protagonismo. Ed in quell’occasione parla anche Falcone: “Ho tollerato in silenzio le accuse di protagonismo e di scorrettezza nel mio lavoro. Paolo Borsellino ha dimostrato ancora una volta il suo senso dello Stato e il suo coraggio e come risposta è stata innescata un’ indegna manovra per tentare di stravolgere il profondo valore morale del suo gesto riducendo tutto ad una bega tra cordate di magistrati. Ciò non mi ferisce particolarmente, a parte il disgusto per chi è capace di tanta bassezza morale. Ed allora, dopo una lunga riflessione, mi sono reso conto che l’unica via praticabile a tal fine è quella di cambiare immediatamente ufficio”. Palazzo dei Veleni, dicevamo prima. E così il magistrato lascia l’Ufficio Istruzione e passa alla Procura dove trova Giammanco. Diversi volti, stessa storia. Isolato ed accerchiato, Falcone accetta nel 1991 la proposta di trasferirsi a Roma, al ministero di Grazia e Giustizia, come Direttore Generale degli Affari Penali. Conclude il quadro il fallito attentato all’Addaura del 20 giugno 1989.
E rieccoli i corvi, che si erano facilmente illusi di potersi scagliare contro il cadavere di Falcone. Qualcuno utilizza quell’episodio per continuare a screditarlo ed isolarlo. Ed una sentenza del 19 ottobre del 2004 della Cassazione parla di “infame linciaggio” che vede in prima linea anche un Colonello dei Carabinieri. Che di nome fa Mario. E di cognome fa Mori. Passano i mesi. Antonino Agostino viene ammazzato. Giovanni Falcone viene ammazzato. Paolo Borsellino viene ammazzato. I ragazzi delle scorte vengono ammazzati. In Procura è la rivolta. Otto sostituti si dimettono dal pool dicendosi incompatibili con la dirigenza di Giammanco e chiedendone la sostituzione con una guida autorevole e indiscussa. Tra questi troviamo il nome di Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Alfredo Morvillo.
Arriva a Palermo, il 15 gennaio del 1993, Gian Carlo Caselli. Ed in men che non si dica i corpi di tutti quegli uomini uccisi ferocemente vengono nuovamente scagliati contro la Procura più calda d’Italia. Una Procura che nel frattempo si trova a dover affrontare la mancata perquisizione del covo di Riina, un dossier su Bruno Contrada ed indagini su Giulio Andreotti e Silvio Berlusconi. Il nuovo non riesce a venir fuori, e ritorna il vecchio. Vecchi protagonisti, vecchie accuse. Le più gettonate rimangono quelle inerenti ai “protagonisti dell’ antimafia, centro di potere, uso strumentale dei pentiti e giustizia politicizzata”. Nasce e cresce la leggenda nera dell’antimafia. Nel maggio 1994 si insedia il primo governo Berlusconi che il 14 ottobre, in visita a Mosca, afferma “Speriamo di non fare più queste cose sulla mafia come La Piovra. Tutto questo ha dato del nostro paese un’immagine veramente negativa. C’è chi dice che c’è la mafia nella realtà italiana. Ma poi cos’è la mafia?”. Per Vittorio Sgarbi il vero mafioso è Caselli che è “una vergogna per la magistratura italiana e i veri nemici sono i pentiti di mafia”. Segue Giuliano Ferrara che aggiunge: “occorre sottrarre alle isole di Pianosa e Asinara ogni funzione punitiva per restituirle alla loro funzione naturale e culturale”. Riina dixit. Torna a parlare Silvio per difendere Giulio: “Andreotti è stato sette volte Presidente del Consiglio: all’estero penseranno che l’Italia è stata governata ininterrottamente dalla mafia. Mettere sotto accusa Andreotti è una cosa che offende l’appeal dei nostri prodotti all’estero e danneggia il made in Italy. Mi addolora sapere che il mio paese è conosciuto all’estero prima per la mafia e poi per la pizza”. Chiù pizza pi tutti, disse Silvio. Nel frattempo le richieste del papello tornano all’ordine del giorno nelle agende politiche di tutti i governi che pian piano si alternano. Richieste che vengono quasi tutte attuate. Intanto arriva il 22 gennaio 1992 e nasce la Commissione Bicamerale per la riforma della seconda parte della Costituzione, sotto la presidenza di Massimo D’Alema. Torna alla carica Giuliano Ferrara che afferma “La giustizia è il problema numero uno. Berlusconi viene sistematicamente perseguitato dai giudici”. Parla anche D’Alema “Il rapporto tra magistratura e potere politico è uno dei temi che più seriamente dovrà impegnare la Commissione”.
Berlusconi conclude “”Per fortuna il clima è molto positivo”. Può dormire sogni tranquilli il Cavaliere. A completare il “quadro positivo” è la nomina del relatore del comitato. Marco Boato, da sempre critico con la magistratura. Piccolo dettaglio: quando un certo Licio Gelli leggerà il lavoro di Boato, dichiarerà entusiasta: “ Vedo che, vent’anni dopo, questa Bicamerale sta copiando pezzo per pezzo il mio Piano di Rinascita Democratica. Meglio tardi che mai”. Anche lui può dormire sogni tranquilli. Intanto “MicroMega” raccoglie le firme contrarie a questo progetto, tra cui spiccano quelle di Bobbio, De Andrè, De Gregori, Baricco”. Caselli parla di “sistema incostituzionale per le enormi lesioni all’indipendenza della magistratura”. Roberto Scarpinato evidenzia le analogie con il piano della P2. Gherardo Colombo rilascia un’intervista dal titolo “Bicamerale, figlia del ricatto”. Tanto basta per essere attaccato da Violante e Mancino (allora presidenti delle Camere) e per essere fulminato da un procedimento disciplinare dal ministro Flick (quello che nel 1997 chiuderà le supercarceri di Pianosa e Asinara, così come scritto nel papello e come ribadito dal solito Giuliano Ferrara). Arriviamo al 1998 e arriviamo al suicidio di Luigi Lombardini, procuratore presso la Pretura di Cagliari che si toglierà la vita dopo un interrogatorio con i magistrati di Palermo. Altro linciaggio a suon di “Assassini!” (Sgarbi). Tra i pochi a difendere Caselli troviamo Indro Montanelli che scrive: “Signor Procuratore, le auguro che la limpidezza della sua azione trionfi e valga a disperdere o almeno alleggerire la cappa di fango che si cerca di gettare sulla giustizia.
Lo auguro a Lei. Ma lo auguro, anche, come cittadino, a me stesso”. Solo dopo mesi il Csm, ascoltate le registrazioni dell’interrogatorio, libererà i PM palermitani da ogni sospetto. Ma al peggio non c’è mai fine. Jannuzzi, Ferrara e Marcenaro riescono in un’impresa titanica: insultare in un solo articolo (su Panorama) ben 13 magistrati della Procura di Palermo contemporaneamente. Questo linciaggio ha comunque lasciato tracce indelebili sulla schiena e sulla pelle di tanti magistrati. Alcuni hanno accusato il colpo. Altri continuano a schiena dritta. E così ci ritroviamo oggi a dover assistere alle medesime tattiche: quel gioco grande del potere. Quello che non si stanca mai di agire, sottobanco, in gran segreto tramite il supporto di servizi segreti, massoneria e tanti, troppi esponenti politici. Partono le indagini sulla trattativa stato- mafia. Inizia il Processo. Un processo che vede coinvolti esponenti politici e uomini mafiosi. Tutti dalla stessa parte. Ed anche qui scatta la macchina del fango. Il già citato Vittorio Sgarbi che querela Salvatore Borsellino per “vilipendo al Capo dello Stato” e firma un pezzo su Il Giornale in cui afferma “Riina non è, se non nelle intenzioni, nemico di Di Matteo. Nei fatti è suo complice”. Il già citato Giuliano Ferrara che pubblica un articolo su “Il Foglio” dal titolo “Bye bye trattativa” scritto da Massimo Bordin, direttore di Radio Radicale in cui si parla di presunte ferie del procedimento (tralasciando volutamente il fatto che il processo sta invece viaggiando ad una certa velocità). Si descrive la figura del magistrato Antonino Di Matteo come il PM che ha preso per buoni tutti i falsi pentiti nel processo sulla strage di Via D’ Amelio. Fino a culminare in una ridicola ovvietà che lo accomuna a tante altre voci che si sono scagliate contro il processo: il reato di “trattativa”. In quale lingua si deve spiegare che il processo sulla trattativa stato-mafia non si basa sul reato di “trattativa” ma su quello di “attentato a corpo politico dello Stato”? Ma i corvi che volano sulla Procura di Palermo non sono mai sazi e la macchina del fango non si arresta, anzi.
Il PM Antonino Di Matteo diventa bersaglio di minacce e avvertimenti: un dossier anonimo di 12 cartelle con lo stemma della Repubblica Italiana che avverte il PM di essere spiato da uomini delle istituzioni, lettere anonime con relativi annunci di imminenti attentati, una doppia lettera scritta da un anonimo uomo d’onore della famiglia trapanese che annuncia la morte del magistrato, un’irruzione nell’abitazione del PM Roberto Tartaglia Ma tutto questo non basta. Il pool non si ferma. Allora ci si mette pure Riina, il capo dei capi che da muto, sordo e cieco inizia a parlare confidandosi con Lorusso annunciando l’uccisione di Antonino Di Matteo. Quello stesso Riina che sa di morire in carcere in quanto pluriergastolano. Quello stesso Riina che in relazione al processo sulla trattativa rischia senza dubbio una pena minima rispetto a tutte le condanne che pendono su lui. Chissà perché Riina teme così tanto Antonino Di Matteo. Le intercettazioni vengono rese pubbliche a gennaio del 2014 e dopo neanche due mesi la palla viene colta al balzo da Mori, Subranni e De Donno che presentano un’istanza di trasferimento del processo per “rischio incolumità pubblica”. Un po’ come fece Mancino nel famoso “Romanzo Quirinale” con Giorgio Napolitano. Ma l’ex ministro si difende affermando di aver solamente “sottolineato la necessità di esercitare funzioni di coordinamento”. Ed è proprio in relazione a queste intercettazioni che Napolitano solleva un conflitto di attribuzione davanti alla Consulta: telefonate distrutte e un bel provvedimento disciplinare nei confronti di Di Matteo, che non guasta mai, con l’accusa di aver mancato ai doveri di diligenza e riserbo e di aver leso indebitamente il diritto di riservatezza del Presidente della Repubblica.
Il tutto squisitamente contornato dalle affermazioni di Vincenzo Oliveri, presidente della Corte di Appello siciliana, che sceglie di lanciare un messaggio di affetto nei confronti del Capo dello Stato, sostenendo che le toghe avrebbero un debito di riconoscenza nei suoi confronti. “Si è tentato di offuscare la sua immagine con il sospetto di sue interferenze in un grave procedimento in corso qui a Palermo”. Nessun cenno ai PM Di Matteo. Teresi e Del Bene presenti in platea durante la cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario. Ma qualcuno non ha ancora capito che chi ha la schiena dritta non si piega al gioco grande del potere. E così, dopo 18 mesi il Csm proscioglie il magistrato, che commenta amareggiato “Non c’è nulla di cui essere soddisfatti, se si legge la richiesta di proscioglimento è chiaro che quel procedimento non doveva essere avviato”. Un altro spiacevole inconveniente si verifica quando la delegazione del Csm, arrivata a Palermo per manifestare solidarietà nei confronti dei magistrati della Procura, non ha incontrato nessuno dei PM destinatari di minacce. “Eravamo in attesa di una convocazione d’incontro che però non c’è stata” dice Tartaglia. In tutto questo non dimentichiamo il bomb-jammer promesso dal ministro Alfano e mai concesso. Ma no, il bomb jammer è pericoloso. Meglio un lince, che a Palermo passerebbe totalmente inosservato. D’altronde siamo in guerra, chi se ne accorgerebbe. Ennesima mortificazione. Ma ecco che ritornano i professionisti delle carte a posto, quelli che abbiamo già trovato con Falcone, Borsellino e Caselli. Viene infatti modificato da parte del plenum del Csm l’articolo 8 della circolare sulle Direzioni Distrettuali Antimafia nelle Procure: “i procedimenti riguardanti i reati indicati nell’art.51, comma 3-bis, c.p.p devono essere assegnati a magistrati della DDA”. Ergo: viene tecnicamente impedito ai PM del pool di mandare avanti nuove indagini sulla trattativa. Di Matteo è infatti “formalmente scaduto” da quattro anni. Tartaglia non fa ancora parte della DDA e l’incarico di Del Bene sarebbe scaduto il primo giugno. Di cosa parlavamo prima? Delegittimazione: fatto. Isolamento: fatto. Mortificazione: fatto. Mancava un tassello: lasciare disarmati i magistrati. Fatto anche quello.
E proprio in questo momento subentrano due pezzi da Novanta. Marcelle Padovani che il 23 maggio 2014 riprende gli antichi concetti di protagonismo di alcuni magistrati che “hanno contribuito a costruire una autorappresentazione sacrificale del proprio lavoro diventando quello che mi son permessa di chiamare nuovi protagonisti dell'antimafia aiutati in questo dai media. Si sono orientati sulle teorie del complotto, dei retroscena e vorrei dire delle trame che probabilmente sono solo sulla carta”. Ma non solo, attacca anche l'impostazione del processo sulla trattativa sostenendo che “se uomini dello Stato hanno contattato Vito Ciancimino e i capi di Cosa Nostra per fermare le stragi, hanno fatto bene”.
Secondo la scrittrice francese, oggi la posizione di Falcone sarebbe quindi più vicina al pensiero del giurista Giovanni Fiandaca. E il secondo pezzo da Novanta è proprio lui, Fiandaca, giurista, opinionista de “Il Foglio” di Ferrara, e autore di un manuale di diritto penale scritto con Enzo Musco, avvocato di Obinu sotto processo per la mancata cattura di Provenzano. Fiandaca che scrive un libro con lo storico Lupo nel quale giustifica vigliaccamente la trattativa dietro la tristemente famosa ragion di stato. Fiandaca che poco dopo si candida con il PD. Successivamente Napolitano, agendo solo a colpi di circolari e direttive, invia una missiva con la quale richiama i consiglieri a ricoprire in via prioritaria gli incarichi ai vertici degli uffici giudiziari che da più tempo sono rimasti senza titolare e a seguire il criterio cronologico. Rimandata dunque la nomina del Procuratore Capo di Palermo. Non tralasciamo gli inquietanti avvenimenti che hanno recentemente coinvolto Roberto Scarpinato ed il quadro è completo. Quanta gente che aspetta sulla sponda del fiume di veder passare i cadaveri. La stessa gente che agiva vent’anni fa ce la ritroviamo oggi come parte attiva in una delle più grandi macchine del fango che il nostro paese abbia mai conosciuto: quella contro il processo sulla trattativa e contro i magistrati impegnati in esso, in indagini e processi ad esso connessi. Quanto e cosa dobbiamo aspettare per evitare che queste menti raffinatissime continuino ad agire in maniera, tra l’altro, così sfacciata e spudorata?

ANTIMAFIADuemila
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