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carceri-chiavidi Enza Galluccio - 10 settembre 2014
In un articolo pubblicato nel 2006 su Il Manifesto, Matteo Bartocci raccontava di una rete di intelligence che controllava le carceri in modo “continuativo e centralizzato”. La realtà che ne fuoriusciva era quella di una supervisione a 360 gradi su detenuti, agenti e guardie penitenziarie. La cosa più inquietante è che tutto ciò poteva avvenire senza passaggio di atti che ne definissero finalità e limiti, o meglio, senza che queste iniziative fossero stabilite ufficialmente in alcun ufficio preposto.
Tutto sembra essersi realizzato, invece, nell’ombra di servizi segreti paralleli in collaborazione con parti istituzionali. Un gruppo di circa 250 poliziotti opportunamente addestrati, che agivano al di là delle proprie funzioni su direttive di forze più meno occulte.

Semplici ordini di servizio riservati ne favorivano l’operato, fornendo chiavi d’accesso di ogni natura. La selezione degli agenti era realizzata dal capo dell’ufficio ispettivo Salvatore Leopardi, lo stesso che avrebbe firmato la prima comunicazione il 9 maggio del 2006.
Il Dipartimento Amministrativo Penitenziario (Dap) aveva emanato l’ordine di istituire articolazioni operative della polizia penitenziaria con funzioni informative di assoluta riservatezza, senza specificare altro. Le comunicazioni seguivano degli standard molto rigidi, in modo da risultare impenetrabili se non dai servizi paralleli che gestivano quell’agire.
Nella circolare preparatoria, a firma dell’allora capo del Dap Giovanni Tinebra, si sarebbero evidenziate innanzitutto una sequenza di attività rivolte ai detenuti del 41-bis, ma non solo, il controllo sarebbe stato esteso anche ad altri reclusi e a chiunque operasse in quelle carceri.
Vale la pena di ricordare che Giovanni Tinebra era anche a capo della Procura di Caltanissetta nel 1992 e titolare dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, che vedeva come imputati principali Scarantino e Candura. Quell’inchiesta si era poi rivelata come uno fra i più grandi depistaggi della storia della nostra Repubblica. Tra i collaboratori più stretti di Tinebra c’erano il vicequestore Arnaldo La Barbera e  il generale Antonio Subranni, definito “punciuto” - cioè affiliato di Cosa nostra - da Paolo Borsellino e Bruno Contrada, allora n.2 del SISDE e responsabile dei servizi segreti civili per la lotta contro la criminalità organizzata, che qualche mese dopo venne arrestato per concorso esterno in associazione mafiosa, e poi condannato definitivamente a dieci anni di reclusione.
Leopardi, a sua volta, vantava rapporti con Giacinto Siciliano, direttore del carcere speciale di Sulmona e in seguito anche di quello di Opera, dove fino a poco tempo fa era rinchiuso Totò Riina affetto da estrema loquacità con la sua “dama di compagnia” Alberto Lorusso.  Questo personaggio ambiguo, affiliato alla Sacra Corona Unita e gran comunicatore dal carcere con l’esterno, in una delle conversazioni registrate tra lui e Riina nel settembre dello scorso anno avrebbe detto: “C’è uno scontro una guerra tra la Procura ed i servizi segreti e c’è questo, Protocollo Farfalla, una cosa segreta, per fare in modo che non escono le notizie perché vanno alla Procura. L’ha detto questo Alfano un mese fa quando affacciò alla televisione: il protocollo farfalla, quando si parlava dell’agenda rossa”.
L’esistenza del “Protocollo Farfalla” sarebbe stata anche confermata dalle parole di Loris D’Ambrosio – ex consigliere giuridico di Napolitano – in una delle famose telefonate con Nicola Mancino.
Anche il Pm Gabriele Chelazzi si era occupato di questo misterioso documento. Entrambi sono “improvvisamente” morti,  ma nessuna autopsia è stata eseguita sui loro corpi.

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