Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

gratteri-nicola-web11di Mariantonietta Colimberti - 11 luglio 2014
Lotta alla criminalità, massoneria, vita blindata: uno dei più famosi magistrati d'Italia parla a tutto campo del suo lavoro e di se stesso nell'intervista in uscita sull'ultimo numero della rivista dell'Arel
Nicola Gratteri è uno dei più famosi magistrati d’Italia, da sempre impegnato contro la ‘ndrangheta, la mafia calabrese, e per questo sotto scorta dal 1989. Nel governo Letta ha fatto parte, con Raffaele Cantone e Roberto Garofoli, della task force che ha elaborato le proposte sulla lotta alla criminalità organizzata contenute nel rapporto Per una moderna politica antimafia. Ha scritto molti libri, l’ultimo dei quali, Male lingue, è uscito a maggio di quest’anno. La conversazione che segue è una sintesi dell’intervista rilasciata alla rivista dell’Arel, dalla prossima settimana in libreria.

Il numero della rivista è dedicato alla parola “progresso”. Le chiedo subito se a questo punto della storia abbia fatto più progressi lo Stato nella lotta alla criminalità organizzata o la criminalità a penetrare nel mondo della legalità.
In Italia abbiamo fatto molti progressi. Penso alla legislazione antimafia e a come si è evoluta dagli anni Ottanta in poi. Certo, bisogna fare ancora molto. Al momento possiamo dire che nella partita contro la criminalità organizzata stiamo pareggiando.

Come si è evoluta la ‘ndrangheta? Mi riferisco al piano organizzativo, ma anche a quello “personale”, al modo di essere e di vivere dei boss e della manovalanza.
La ‘ndrangheta ha mutato pelle alla fine degli anni Sessanta, quando ha cambiato radicalmente la propria struttura, adeguandosi a un modello familistico che, col tempo, si è trasformato in uno scudo protettivo, impermeabile alle defezioni e alle delazioni. Nello stesso periodo, la ‘ndrangheta ha consentito ai boss più importanti, una trentina all’epoca, la doppia affiliazione, cioè la possibilità di aderire alle logge deviate della Massoneria. La ‘ndrangheta, negli ultimi tempi, è diventata sempre più classe dirigente. Oggi, molti figli di ‘ndranghetisti sono entrati nella Pubblica amministrazione.

I figli di ‘ndranghetisti entrati nella Pubblica amministrazione continuano ad appartenere alle famiglie di provenienza oppure si “convertono” allo Stato?
Molti restano nell’alveo familiare e continuano a tutelare gli interessi del clan. Ci sono medici che gestiscono reparti ospedalieri con logiche clientelari e mafiose. Ci sono burocrati che si prestano ai suggerimenti e agli input della “famiglia” di appartenenza. Ma ci sono anche figli di mafiosi che fanno scelte di campo coraggiose e vanno a vivere lontano dai territori di origine. La ‘ndrangheta rispecchia e riflette la società in cui vive e opera.

Lei ha parlato spesso del legame tra ‘ndrangheta e Massoneria. Gli ‘ndranghetisti sono sempre massoni? Qual è il nesso profondo, oltre alla segretezza delle associazioni?
Ci sono ‘ndranghetisti che sono anche massoni. Succede dalla fine degli anni Sessanta, quando con l’introduzione della “Santa” nella gerarchia della ‘ndrangheta, i boss più influenti hanno avuto la possibilità di aderire alle logge deviate della massoneria. Lo scopo era quello di entrare nelle stanze del potere, cioè decidere la destinazione dei fondi garantiti dalle risorse pubbliche.

Lo ‘ndranghetista massone compie due riti di iniziazione o essi coincidono?
Sono due cose diverse e distinte. Il rito di iniziazione alla ‘ndrangheta prevede un giuramento di fedeltà che dura tutta la vita. I pochi collaboratori di giustizia raccontano già alla fine dell’Ottocento di neofiti costretti a giurare fedeltà su una immaginetta sacra, quella di San Michele Arcangelo, che brucia assieme al sangue che scorga dal dito dell’iniziando.

Nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta quali sono gli strumenti che funzionano di più e quali invece sono desueti?
Una delle leggi più efficaci è quella del sequestro e della confisca dei beni illegalmente conseguiti. Bisognerebbe snellire le procedure e garantire una migliore gestione dei beni confiscati. Sostengo da tempo l’importanza di creare un deterrente serio: delinquere dovrebbe essere sconveniente. Una delle proposte che ho fatto è stata quella di equiparare, come pena edittale, il 416bis, l’associazione mafiosa, all’associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti.

Che fine hanno fatto i pentiti? Ci dia la sua valutazione sulla legislazione che li riguarda.
I collaboratori di giustizia hanno avuto un ruolo importante. Negli ultimi tempi, abbiamo avuto pochi collaboratori di giustizia perché le condizioni per collaborare non erano più favorevoli. Penso che lo strumento investigativo più adeguato sia quello delle intercettazioni, tanto più in un paese come il nostro caratterizzato da una corruzione endemica e da forti infiltrazioni mafiose.

Perché i pentiti della ‘ndrangheta sono quasi inesistenti, comunque decisamente inferiori come numero e come rango a quelli di mafia e di camorra?
Lo si deve alla particolare struttura della ‘ndrangheta, basata sul vincolo di sangue. Pentirsi significherebbe tradire il proprio sangue, i propri genitori, i propri fratelli, la propria famiglia. Voglio però aggiungere che per comprendere le mafie, bisogna spazzare via le interpretazioni culturaliste. Le mafie non sono il prodotto di un territorio o di una mentalità. Sono sistemi di potere generati e protetti dalla violenza e si perpetuano grazie a una fitta rete di relazioni. Per combattere le mafie bisogna combattere anche la corruzione politica. Le mafie si infiltrano nei gangli della Pubblica amministrazione perché da sempre cercano legittimazione e riconoscimento sociale.

Oltre all’Italia, quali sono i paesi europei più permeabili dalla mafia?
La Germania è il paese dove si registra una maggiore presenza della ‘ndrangheta. Ma le nostre mafie ormai hanno preso il largo e si sono radicate in quasi tutti i paesi europei. Le mafie si sono globalizzate, l’antimafia no. Mi auguro che il semestre di presidenza italiana possa coincidere con una serie di riforme per migliorare l’azione di contrasto. Non ci possono essere santuari. Bisognerebbe adottare la legislazione antimafia vigente in Italia in ogni paese membro dell’Ue. Con una legislazione equivalente al 416bis (associazione mafiosa e confisca dei beni), faremmo un grande passo in avanti. La nostra legislazione antimafia, nonostante qualche vulnus, è oggi la più efficace.

Quando ha scelto di fare il magistrato e perché? Si è mai pentito?
Da bambino mi davano fastidio gli atteggiamenti arroganti dei figli dei mafiosi. Ho visto tanti morti ammazzati e ho sempre pensato che da grande avrei voluto fare qualcosa per combattere il male più insidioso della mia terra: la ‘ndrangheta. Ho scelto di fare il magistrato, ma ancora di più ho scelto di farlo nella mia Calabria. Non mi sono mai pentito, credo fermamente nella possibilità di combattere le mafie, attraverso una serie di riforme, simili a quelle indicate nel pacchetto di proposte consegnato all’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta. Ho scelto questa strada e spero di continuare a percorrerla a lungo. Non riuscirei più a tirarmi indietro. Non ha senso vivere da vigliacco. Nonostante le privazioni questo mestiere mi appassiona e mi entusiasma ancora.

Quali sono i pericoli dai quali un magistrato deve guardarsi?
Non è facile definire la casistica dei pericoli. Per quanto mi riguarda, ritengo che il magistrato la sera debba tornare a casa e cenare con la propria famiglia. Cioè, non essere commensale di nessuno. Quello del magistrato è un lavoro solitario. Non ci possono essere condizionamenti ambientali.

Quanto deve a sua moglie e ai suoi figli?
Tanto, soprattutto a mia moglie che è riuscita a supplire alle mie lunghe assenze con tutte quelle attenzioni che le donne prestano alla famiglia.

Nel suo ultimo libro appena uscito, “Male lingue”, va addirittura all’origine del linguaggio mafioso. Conoscere aiuta a combattere? Davvero pensa che un giorno lo Stato vincerà?
Da sempre ritengo che sia importante l’opera della conoscenza e della consapevolezza. Se non fossi fiducioso nella possibilità di cambiare le cose, non andrei nelle scuole a parlare con i giovani. È necessario coinvolgere più gente possibile. Lo Stato siamo noi, rappresentati nelle varie articolazioni istituzionali. Se cambia la nostra mentalità e cresce la voglia di costruire il bene comune, cambiano anche le istituzioni e chi ci rappresenta.

@mcolimberti

Tratto da: europaquotidiano.it

Ti potrebbe interessare...

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos