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rizza-lo-bianco-webdi Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza - 12 marzo 2014
La replica alle tesi di Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo

Ci sono gli amici della musica, gli amici degli animali e ora pure gli amici della ‘’trattativa’’, ovvero gli alfieri della sostenibilita’ etica - ma soprattutto giuridica - di quel patto scellerato che, nel biennio ’92-’93, tra una bomba e l’altra, e in mezzo ai cadaveri carbonizzati di giudici, poliziotti, donne e bambini, lo Stato intavolo’ in gran segreto con il vertice di Cosa nostra per salvare la vita ad un pugno di politici finiti nella black-list dei killer mafiosi. I due amici della ‘’trattativa’’ si chiamano Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo: il primo e’ un giurista, il secondo uno storico; entrambi docenti dell’Ateneo palermitano, costituiscono il top dell’intelligentia siciliana, anche se Lupo e’ nativo di Siena. La loro tesi, riassunta nel saggio ‘’La mafia non ha vinto’’ (Laterza), appena sbarcato in libreria e prossimamente presentato in pompa magna in commissione Antimafia, ha l’ambizione di disintegrare il processo in corso nell’aula bunker di Palermo, quello sulla trattativa mafia-Stato.

Per Lupo e Fiandaca quel processo e’ privo di fondamenti giuridici: per loro, infatti, la trattativa fu non solo un’iniziativa legittima, ma addirittura doverosa, utile, benefica, di salvaguardia della sicurezza nazionale trattandosi dello strumento attraverso il quale lo Stato, in quel preciso momento storico, cerco’ di preservare la vita dei cittadini. Una tesi stroncata dal germanista Claudio Magris che sul Corriere ha definito ‘’disonorevole’’ per uno Stato trattare con dei fuorilegge. Se lo fa non e’ piu’ uno Stato, dice Magris, ma diventa ‘’un’accozzaglia di consorterie’’.

Noi siamo d’accordo con Magris. Siamo convinti che la trattativa (per parafrasare il Foglio, che con questa definizione fantozziana liquido’ il processo di Palermo, nel titolo di un articolo che anticipava le posizioni di Fiandaca) e’ ‘’una boiata pazzesca’’. E per questo motivo, i prof non ci amano. Al punto che, fin dalle prime pagine del loro saggio, si scagliano ripetutamente contro il volume ‘’Io So’’: l’intervista da noi realizzata con Antonio Ingroia e pubblicata da Chiarelettere alla fine del 2012, sulla trattativa e sulle ragioni culturali e politiche che l’hanno determinata. A Lupo e Fiandaca non e’ piaciuta. Con l’evidente intento di attaccare Ingroia, i due studiosi attaccano il  principio ispiratore del libro, che si rifa’ all’anatema civile (‘’Io so, ma non ho le prove’’) scagliato da Pasolini alla fine del ‘74 dalle colonne del Corsera. E ci accusano di non avere ‘’riflettuto sul principio generale per cui nessuno può affermare una sua verità a prescindere da prove documentarie e senza chiarire i processi cognitivi utilizzati’’.

Cari prof, non siamo giuristi ne’ storici, ma abbiamo riflettuto bene. E siamo sempre piu’ convinti di quello che abbiamo scritto. E cioe’ che oggi, a vent’anni dalle stragi, ‘’e’ necessario un ripensamento critico (su quanto e’ accaduto in Italia, ndr) che non debba esclusivamente tener conto delle risultanze processuali’’. Questo perche’  ‘’l’azione della giustizia, in questo ventennio, ha manifestato tutti i suoi limiti, legati all’esigenza prevista dal codice di trovare prove concrete, in ordine a reati specifici e a responsabili individuati con certezza. Ma non sempre queste prove e questi responsabili possono essere individuati, specialmente nell’ambito di indagini su episodi criminali che si iscrivono in una più ampia strategia della tensione fortemente orientata da interessi politici e da registi occulti, sulla quale sin dai primi momenti sono calate nebbie e cortine fumogene finalizzate a depistare l’accertamento della verità’’.

Che vuol dire? Vuol dire che se c’e’, come appare ormai acquisito, un pezzo dello Stato che rema contro l’accertamento della verita’, se depistaggi e insabbiamenti sono stati una costante della storia occulta del Paese, l’esercizio dell’ intelligenza critica e’ l’unico strumento rimasto in grado di diradare nebbie e cortine fumogene finalizzate a sviare anche una corretta ricostruzione storica. Quello che abbiamo voluto proporre, intervistando Ingroia, e’ insomma un ragionamento, una riflessione extragiudiziale, utilizzando proprio quei processi cognitivi che fanno esclusivo riferimento alla nostra intelligenza (dal latino intelligere = capire, ma soprattutto da inter lego = stabilire correlazioni tra elementi), e che prescindono dalle prove giuridiche proprio perche’ non pretendono di giungere ad una sentenza, ma ad una correlazione logica tra gli eventi che porti ad una consapevolezza lucida della realta’ che ci circonda. E’ il primato del pensiero critico, sostenuto in solitudine da Pasolini, nel suo famoso articolo del ’74: quello nel quale riconosce agli intellettuali il ruolo di sentinelle delle dinamiche perverse e delle derive criminali del potere. Certo, Pasolini era un intellettuale ‘’apocalittico’’ e aveva in mente una figura d’intellettuale altrettanto ‘’apocalittica’’, del tutto libera cioe’ da ogni conformismo ideologico. Sapeva bene che per condannare ci vogliono le prove, ma per analizzare la realta’ basta il pensiero critico. Perche’ la storia e la giustizia hanno seguito da sempre percorsi diversi: tranne che in tempi ecumenici (e pragmatici) come quelli attuali, nei quali storici e giuristi come voi, dottissimi prof, si avvinghiano su una visione univoca che appare cosi’ intrisa di perdonismo aprioristico da non accontentarsi neppure di quelli che un gip e una Corte d’assise hanno valutato come elementi di prova sufficienti a celebrare un processo.

Non ci resta, dunque, che la cronaca? La nostra ricostruzione, offerta ai lettori attraverso le parole di Ingroia, e’ infatti quella di cronisti, osservatori che (come insegna Pasolini) si limitano a ‘’coordinare fatti anche lontani, mettere insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, e ristabilire la logica là dove sembrano regnare l’arbitrarietà, la follia e il mistero’’. Niente di piu’. Nella terra dove tanti magistrati antimafia sono stati letteralmente fatti a pezzi da un sistema criminale protetto per oltre vent’anni dall’impostura dell’ipergarantismo, nella terra dove l’eccellenza del pensiero intellettuale appare febbrilmente impegnata ad isolare (piuttosto che a sostenere) la magistratura inquirente gia’ esposta a gravi e ripetute minacce di morte, l’inchiesta giornalistica indipendente rimane forse oggi l’esercizio piu’ libero del pensiero critico nel Paese.

Per questo, con l’umilta’ e la determinazione imposte dal nostro ruolo di cronisti, vi rivolgiamo solo una domanda: se dentro la trattativa, intesa machiavellicamente come fine che giustifica i mezzi, ci sono eventi che integrano estremi di reato, che si fa? Negli Usa, dopo l’attentato alle Torri gemelle, un governo democraticamente eletto si assunse la responsabilita’ di adottare una legge liberticida come il Patriot act, che reintroduce la tortura, in nome di un valore superiore di sicurezza nazionale. Ma in Italia non c’e’ mai stato un governo che si e’ assunto la responsabilita’ politica di individuare ipotesi legislative entro le quali ammettere la legittimita’ di un’interlocuzione dello Stato con i criminali mafiosi. Voi sostenete che il limite della procura di Palermo e’ di muovere dall’assunto che siccome una trattativa c’e’ stata, allora e’ illecita, senza provare i singoli fatti. Ma il rischio, come hanno rilevato anche pubblicamente stimati giuristi del vostro stesso Ateneo, e’ che la critica possa ritorcersi contro di voi: e cioe’ che siccome la trattativa e’ lecita, allora tutto quello che c’e’ dentro e’ lecito. Compresa la macelleria di uomini e donne che tra il ’92 e il ‘93 hanno pagato il prezzo del dialogo tra mafia e Stato. E questo per noi resta inaccettabile.

In foto: i giornalisti Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco

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