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modica-manueladi Manuela Modica - L'Unità - 27 gennaio 2013
L’ultima volta che ho scritto della storia che sto per raccontarvi era il 3 dicembre del 2011. Il giorno successivo chi ha comprato l’Unità può aver dunque letto di un procuratore generale rinviato a giudizio per diffamazione. Si trattava di Franco Cassata, pg di Messina. Il pm di Reggio Calabria, Federico Perrone Capano, lo aveva citato a giudizio perché riteneva che Cassata  fosse “il Corvo”, cioè che fosse l’anonimo ad aver prodotto un dossier diffamatorio  – “Per motivi abietti di vendetta”, così scriveva il pm nella citazione a giudizio – nei confronti di Adolfo Parmaliana. Cioè nei confronti di un morto.

Un dossier diffamatorio. Che accusava un morto, addirittura suicida. E l’autore un procuratore generale. I cardini narrativi della storia che ora vi racconto sono questi.

Teniamoli bene a mente prima di tuffarci. Un tuffo che mi tocca ritardare perché è mio preciso dovere premettere che in questo caso non racconto solo da giornalista ma anche da personaggio interno alla storia.

Capita alle volte che il giornalista nell’esercizio delle sue funzioni diventi parte integrante della notizia che racconta. Questo è uno di quei casi. Di cui parlo adesso che il mio ruolo è terminato. Cioè adesso che il procuratore generale di Messina è stato condannato (il 24 gennaio) in primo grado.

Premetto di aver avuto non poche titubanze a tornare a scriverne, vista la strabordanza del mio ruolo di autrice/attrice. Titubanze infrante di fronte alla rassegna stampa del giorno dopo la sentenza. Si. La rilevanza che la stampa ha dato alla notizia mi ha spinta a non tardare oltre. Perché questa storia parla di un morto suicida diffamato, di un pg, di un pm, di un giudice onorario. Ma parla soprattutto di un territorio che ha un vizio insopportabile. E cioè quello di togliere peso ad ogni fatto. Così che succede di tutto ma non succede mai niente.

Qualcuno (@eucromia) proprio pochi giorni fa mi ricordava la splendida esplosione di Eduardo De Filippo: “È cos’e niente”. Un’esplosione che sottolineava quel vizio consolotario, tutto meridionale, di togliere gravità ad ogni evento e così sfuggirgli: “A furia i diciri è cos’e niente, siamo diventati due cos’e niente io e te”.

Perciò che qui non voglio sottolineare le colpe dell’uomo. Ma preme restituire peso a un fatto, per restiturne all’Istituzione.

Cassata è stato condannato a un’ammenda di 800 euro, al risarcimento alla famiglia da stabilire in sede civile. In prima grado. Sentenza che potrebbe essere ribaltata in appello. Ma la Procura di Reggio Calabria, competente per i magistrati messinesi, allora guidata da Giuseppe Pignatone, e un giudice onorario, Lucia Spinella, hanno ritenuto che un’alta carica della magistratura, cioè di un corpo dello Stato abbia agito “per motivi abietti di vendetta” per diffamare un morto.  Il giudice sebbene, infatti, abbia concesso all’imputato le attenuanti generiche, ha ritenuto sussistenti le circostanze aggravanti.

Perciò ve ne parlo, perché questa storia è diventata Storia: una sentenza di condanna penale per un procuratore generale. Non si ha memoria di nessun altro precedente del genere nella Storia giudiziaria del Paese.

Perché non è “cos’e niente”. E tutti i cittadini hanno diritto a formarsi un’opinione in merito a chi ricopre ruoli istituzionali. Ancor di più, dico io, a chi è garante della legge. La stessa legge che deve garantire l’uguaglianza di tutti.

E adesso la storia.

Non ne scrivo da quel 3 dicembre, perché il 5 ricevetti una telefonata: “Sono il dottor Perrone Capano della Procura di Reggio Calabria”. Così il giorno successivo attraversavo lo Stretto, per essere ascoltata dal titolare delle indagini, come persona informata sui fatti.  Ma perché io? Quando il 2 ottobre del 2008 Adolfo Parmaliana si gettò da un viadotto dell’autostrada Messina-Palermo il giornale per il quale scrivevo mi affidò il servizio. Io non l’avevo mai conosciuto e sconoscevo ogni minimo particolare delle sue vicende in vita. Così, con lo sforzo sovrumano a cui spessissimo noi giornalisti siamo sottoposti, apprendere in poco tempo tutto il possibile per raccontarlo, conobbi solo da morto Parmaliana.

Partii dall’ultimo evento. E poi a ritroso. Un uomo si era gettato da un viadotto. Un uomo che a quanto pare conoscevano tutti in città.  Da Terme Vigliatore, dove viveva, a Messina dove era docente di Chimica all’Università. Perfino mia sorella lo conosceva, che per lui aveva organizzato un convegno: “Un uomo straordinario. Di una tale precisione e meticolosità. E pure squisito”. Da quelli a me vicini fino a quelli vicini a lui, un giudizio unanime. Un brav’uomo. Molto conosciuto nel suo ambiente scientifico a livello internazionale. E anche un “rompicoglioni”, come riportò Claudio Fava. Si, rompicoglioni, perché, scoprii pian piano, aveva provato con quella meticolosità e costanza di denunciare il malaffare, le connivenze di quello con le istituzioni e la politica.

Denunce che portarono allo scioglimento del Comune di Terme Vigliatore per infiltrazioni mafiose, alla richiesta di scioglimento per gli stessi motivi del Comune di Barcellona Pozzo di Gotto. Questi i risultati a breve scadenza. Alla lunga, invece, un flop.

Terme Vigliatore tornò alle urne rieleggendo 11 dei 15 consiglieri presenti nella precedente amministrazione. Mentre la richiesta dello scioglimento del Comune di Barcellona Pozzo di Gotto si arenò nei meandri del ministero degli Interni.

Scoprii che il punto dal quale si era gettato fu scelto meticolosamente per cadere in territorio di pertinenza della Procura di Patti e non quella di Barcellona p.g., di cui lui non aveva nessuna fiducia. Che il suo suicidio era un estremo j’accuse contro quella Procura, contro l’insabbiamento dell’informativa Tsunami, redatta dal maggiore dei carabinieri Domenico Cristaldi, che raccontava le connivenze politico-mafiose in quel territorio.

La sua morte, fu in sostanza un atto di accusa per tutto il territorio, per alcuni in particolare, tra cui il neo procuratore generale di Messina (fu nominato l’estate precedente al suicidio di Parmaliana), ex procuratore di Barcellona, Franco Cassata.

L’editore del giornale, per questo motivo, mi chiese di intervistare anche lui, Cassata. Lo contattai telefonicamente da uno dei telefoni della redazione. Come Parmaliana, sconoscevo anche lui. Feci le mie domande, e quando arrivai alla fine della telefonata. Al momento dei saluti mi sentii fare una raccomandazione. Il procuratore generale di Messina mi raccomandò di mantenere un profilo basso sulla vicenda che stavo per raccontare e che lo vedeva accusato. Per questo motivo fui ascoltata dal pubblico ministero prima, durante il processo poi.

Quello che ho raccontato qui è stato perciò oggetto del dibattimento nel processo che lo ha condannato. Nel quale ho specificato di aver ritenuto la raccomandazione un’inopportuna pressione censoria.

Ecco, finita la mia parte, entriamo nel vivo delle indagini.

Parmaliana si uccide, manda una memoria alla Procura di Reggio Calabria, al Senatore Beppe Lumia, agli avvocati Mariella Cicero e Fabio Repici. Un anno dopo viene prodotto un dossier anonimo che ne infanga la memoria, inviato al senatore Lumia e al giornalista Alfio Caruso. La famiglia sporge denuncia contro ignoti. La Procura avvia le indagini.

La Procura di Reggio passo dopo passo risale fino alla Procura generale di Messina. Perché allegato all’anonimo arrivato in diversi uffici, c’era un fax di una sentenza, inviato da una copisteria di Barcellona alla segreteria personale del procuratore. Così il sostituto procuratore reggino si reca negli uffici della Procura generale messinese per interrogare i cancellieri in servizio in quell’ufficio. Per ripetute insistenze dello stesso Cassata, ospite accomodante col giovane pm d’oltre Stretto, gli atti istruttori si svolgono nella stanza del pg.

Così Perrone Capano, un giovane magistrato di origini pugliesi (ora trasferito alla Procura di Bari) si accomoda nella stanza di Cassata. Mentre ascolta l’ultima persona, Angelica Rosso, uccide la noia della verbalizzazione gironzolando per la stanza del procuratore. E nella alienante ripetitività delle domande di rito, la voce ha un cedimento. Inizia un balbettìo. Perché nella vetrinetta della stanza del procuratore generale il suo sguardo s’era posato su un dossier che recitava “esposti parmaliana da spedire”.

Il dossier anonimo, con tanto di documentazione che riguardava Parmaliana, tra cui un’ordinanza di archiviazione del Gip di Barcellona, nella vetrinetta dell’ufficio del Pg.

Sabato mattina (26 gennaio) è stato inaugurato l’anno giudiziario a Messina. Grande assente il procuratore generale appena condannato per aver diffamato Parmaliana. Dall’inizio delle indagini fino alla condanna neanche una velata menzione dall’Anm.

La condanna è di primo grado, certo. Ma qualsiasi cosa accada negli altri gradi di giudizio. Che un Procuratore generale della Repubblica venga indagato, imputato e poi condannato per aver prodotto e inviato anonimamente un dossier diffamatorio contro la memoria di Adolfo Parmaliana, di fronte all’opinione pubblica, adesso, non può e non deve essere una cosa da niente.

Tanto si deve alla memoria di un uomo che ha buttato tutto il suo peso nel vuoto, nel ‘niente’ in cui credeva di vivere.

Tanto si deve alla sua famiglia tutta ché “ogni giorno da allora viviamo senza di lui”. A Cettina Parmaliana: “Ho la consapevolezza che non incontrerò mai più nessuno come mio marito”.

A chiunque abbia il coraggio di non diventare una cosa da niente.

Perché ognuno possa sentirsi parte di una comunità, garantito dalle Istituzioni.

Per riempire di peso il vuoto che ha risucchiato lui e che avvolge tutti.

Perché mai venga tenuto un profilo basso.

Tratto da: 19luglio1992.com
  

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