di Pippo Giordano - 13 dicembre 2013
L'estate del '85 è stata una delle più nere della mia vita; un'estate che mi ha procurato un malessere generale, che mi ha costretto ad ammaniare la bandiera della lotta a Cosa nostra. Mi sono venute a mancare le forze, eppure in quel momento tutto stava andando a gonfie vele. Le indagini che mi aveva affidato personalmente il giudice Giovanni Falcone, stavano cominciando a dare i frutti, anche se avevo riscontrato difficoltà nell'identificare il proprietario di un'auto con targa statunitense, vista sul luogo dell'appostamento.
L'assassinio di Beppe Montana, prima e di Ninni Cassarà e Roberto Antiochia poi, avvenuti nel mezzo delle investigazioni, mi ha segato letteralmente le gambe. Basta! - mi sono detto -, Cosa nostra è padrona assoluta di Palermo, della Sicilia e l'imbelle Stato guarda senza nulla fare. Ho abbandonato la lotta alla mafia, ero distrutto, ero vinto! Ero maledettamente rimasto solo. Ho abbandonato le indagini di Falcone, ho chiuso con la mafia, non volevo sentirne parlare. Il Questore, resosi conto della mia riluttanza e fermezza, ha deciso di nominarmi dirigente della sezione antiterrorismo della Digos e in più occasioni, in assenza del titolare e con provvedimento ad hoc, sono stato nominato Dirigente di tutta la Digos. Insomma, altre indagini, altri metodi investigativi nei confronti del terrorismo nazionale e internazionale ed in particolare mediorientale.
Un giorno, apprendo che un ex appartenente alla legione straniera, indicato con un nomignolo, aveva avviato un traffico internazionale di armi con l'Iraq di Saddam Hussein. Il soggetto viene identificato e posto sotto ossevazione: iniziamo i pedinamenti e le intercettazioni. Da un'utenza telefonica iniziale si passa ad una trentina. Il linguaggio usato nei colloqui telefonici risultava essere codificato che solo gli interlocutori riuscivano a comprendere. Ma dopo alcune settimane, finalmente riusciamo a capire che quei dialoghi criptati, altri non erano che riferimenti a dei cataloghi e che i numeri rappresentavano la trattativa per il commercio e la quantità di missili, carri armati, mine antiuomo, munizioni e petrolio.
Dopo la chiusura di questa investigazione, ne avvio subito un altra. Un diplomatico di un paese Nordafricano in servizio in un'ambascita romana, cercava di vendere 2,500 kg di uranio: avevo già elaborato la trappola per far uscire l'uranio dall'ambasciata e identificare l'inaffidabile diplomatico. Ma mi hanno “consigliato” di lasciar perdere. Ho chiuso le indagini con un nulla di fatto. Di tutta questa mia operosa attività d'intelligence, il Ministero dell'Interno, mi promuoveva per “meriti speciali” al grado superiore, con la motivazione: “le sue complesse indagini di polizia giudiziaria consentivano la identificazione e l'incrimnazione dei componenti di una organizzazione internazionale, dediti al traffico illecito di armi da guerra” Roma, 1987/88.
Ma la lotta alla mafia era lì pronta a bussare al mio cuore ed infatti, una telefonata mi catapulta nuovamente dentro Cosa nostra: un “corleonese” decide di pentirsi e chiede, in accordo con Giovanni Falcone, che io sia presente ai suoi interrogatori. Con lo sguardo e col pensiero rivolto a Lillo Zucchetto, Beppe Montana, Ninni Cassarà, Roberto Antiochia e poi Natale Mondo, ho detto si! Gli interrogatori e la presenza di Giovanni Falcone, mi hanno fatto rivivere momenti amari e gioisi, trascorsi nella mia Sezione antimafia palermitana: ho capito che non avrei dovuto abbandonare i miei “amici”. Infatti, per farmi perdonare ho poi accettato di entrare alla DIA: la Digos è stata una parentesi della mia vita d'investigatore, il mio ruolo non prevedeva un percorso fuori dalla Sicilia. Non ero più solo, ma solo per poco: nel '92 con Capaci e via D'Amelio, sono ripiombato nella solitudine totale. E' il prezzo che ho pagato lo sto ancora oggi espiando.
Tratto da: 19luglio1992.com