Da via d'Amelio a Pino Puglisi. Il ricordo dell'attore nel libro di Aaron Pettinari
«Mi trovavo in via Libertà con un amico e sentimmo il botto. A Palermo ci sono sempre botti di petardi, fuochi d’artificio, e alla fine non ci fai quasi caso o ti immagini di tutto. Poi arrivò la chiamata. Il mio amico era vice questore. “Maurizio vieni con me!” Nessuna spiegazione al telefono ma solo di andare in via D’Amelio. Subito dopo il teatro Zappalà si vedeva una nuvola di fumo nero che si alzava dalla strada. Continuavo a chiamare il mio amico, ero impazzuto completo. Arrivammo all’angolo di Via D’Amelio. C’erano cose strane a terra. Non ricordo di aver guardato in alto. In genere ci si guarda attorno in una situazione del genere. Io vedevo solo la strada, lo sguardo a terra. Non capivo cosa fosse successo. “Minchia che cazzo c’è? È scoppiata una bombola del gas?”. L’occhio mi andò verso un oggetto sull’asfalto e non capii immediatamente cos’era. Era un braccio. Attorno le macchine bruciavano, c’era questo fumo e poi l’odore. Alzo gli occhi e vedo le tapparelle delle serrande sfondate, alcune erano cadute a terra. C’erano pezzi di macchine ovunque. Raccogliemmo una delle serrande e coprimmo quel braccio. Da quel momento non ho capito più nulla. Arrivò altra gente. Non mi ricordo dei carabinieri. Erano tutti in borghese. Qualcuno iniziò a spingermi fuori via D’Amelio, così persi di vista il mio amico. Mi buttarono fuori, verso l’ingresso della via».
Maurizio Bologna quella storia la racconta così. Glaciale.
«Io sono un paramedico e all’epoca lavoravo all’ospedale, al pronto soccorso del “Buccheri La Ferla” a Brancaccio. Gli anni Ottanta, quelli della mattanza, non li ho vissuti da semplice spettatore.
Ogni giorno c’erano una o due persone a terra. Ma anche chi restava in piedi, gambizzato. Una domenica ero di turno. Un ausiliario aprì la porta e senza dir nulla mi fece il gesto di un grilletto premuto. Poi entrò questa persona con due pallottole nella gamba. Ho visto ragazzi sparati, vivi, che in faccia non avevano traccia di paura. Faceva parte del gioco. Quando capitavano certe situazioni in sala operatoria guardavamo gli ausiliari e dopo un po’ arrivavano i carabinieri. E questi capivano che eri stato tu a chiamarli. Non ho mai compreso perché nell’ospedale di Brancaccio non vi fosse un presidio di polizia permanente. In tutti gli altri della città sì. Anche i parrini lo chiedevano al Prefetto. Poi c’erano anche i mafiosi che venivano all’ospedale. Vestivano bene, erano straordinariamente cortesi, gentili. Persone squisite. E poi ti ritrovi Padre Puglisi tra le mani. E io lo conoscevo. Se non avessimo controllato bene non avremmo mai capito che quella era una ferita da arma da fuoco. E sarebbe finito in camera mortuaria, così».
«Era una guerra quotidiana. Così quotidiana che ti ci abituavi. Normale che quasi non te ne fotteva niente. Mettevi uno schermo e ti dicevi che quella non era la tua vita. Si parlava poco di mafia anche tra le persone pulite ma non credo fosse per omertà. Non so dire bene il perché di quella rimozione. Come se ci fossero due Palermo. Forse era un modo per difendersi, per andare avanti. La solitudine c’è stata per tutti. Anche tra la brava gente che cercava di far campare la famiglia. Ad esempio mio padre, uomo di principi, ha perso il posto di lavoro per aver sbattuto al muro un politico impor- tante. Così funzionava in quegli anni. C’erano giornalisti che scrivevano di certe cose, ma venivano emarginati, stavano male, vivevano male. Qualcuno è pure morto ammazzato. Oggi è diverso. Tutti sanno tutto e fanno gli esperti. E anche chi non dovrebbe parlarne ne parla spesso sproloquiando. Te lo ricordi quell’intervento di Totò Cuffaro a Samarcanda? Dopo quell’exploit le persone iniziarono a parlare fra di loro dopo tanto silenzio. A casa, negli uffici, nelle scuole. Nacquero i primi movimenti. E pian piano quella parola che era un tabù iniziò a essere pronunciata. Mafia. Quando è iniziato il maxi processo la gente non aveva ben capito che cosa stesse succedendo. Al di là degli arresti tutto è iniziato in sordina. Al massimo si andava lì per vedere la “teatralità” dei pesci piccoli. C’era una comunicazione verbale e non verbale. Poi i nomi sono diventati altri, personaggi di peso ed è arrivato quello dall’America».
Mentre Maurizio sorseggia il caffè, si sentono due frenate e una macchina dei carabinieri passa accanto al bar a sirene spiegate: «Lo senti questo? Questa era la colonna sonora della Palermo di quegli anni».
«Il giorno dell’attentato di Capaci c’è stato il terremoto. La gente era scioccata. Falcone nell’immaginario collettivo era Falcone! Era lui che si esponeva, lui che
arrivava al palazzo di Giustizia sotto scorta. Lui che era stato messo da parte. Borsellino l’abbiamo conosciuto dopo. Il 23 maggio tornavo da Venezia e atterrai verso le sette di sera all’aeroporto di Punta Raisi, ancora si chiamava così. Mi venne a prendere mio fratello che ovviamente non passò dall’autostrada ma dalla montagna. Arrivammo a casa a mezzanotte. A far scoppiare la rivolta fu la morte di Borsellino. La gente andò al funerale a cornutiare i politici come mai si era visto a Palermo. Fino a qualche tempo prima tutto ciò era impensabile».
Per descrivere le sensazioni della città Maurizio fa un passo indietro nel tempo della memoria: «Verso la fine degli anni Ottanta assieme a Evo Grimaldi eravamo educatori di animazione teatrale all’interno del carcere minorile Malaspina. Mi scantai la prima volta che sono entrato in galera. Per nove mesi sono entrato e uscito da quel posto che anche se era destinato ai minori sempre carcere era e di ragazzi ne ho conosciuti tanti. C’erano i malacarne ma anche chi si trovava lì accidentalmente. C’era anche chi aspirava al “grande salto”, passare dal Malaspina all’Ucciardone. Come se andare nel carcere degli adulti fosse la cosa più bella del mondo, avere la possibilità di farsi notare, di crescere. Si diceva che andare in carcere fosse come andare all’università. Una volta un ragazzo, dentro per spaccio, mi disse: “Professore quanto guadagna? Vuole guadagnare un milione alla semana?”. Era pari al mio stipendio di un mese. Questi ragazzi uscivano dal Malaspina e sul marciapiede dall’altra parte della strada ad aspettarli non c’era la famiglia ma picciotti più grandi».
«In quei primi anni Novanta in via Messina Marina, a Brancaccio, c’era una striscia di una campagna pubblicitaria di Forza Italia. In quell’area off-limits nessuno aveva messo qualcosa. Poi sono arrivati quei sei per sei anche se nessuno aveva veramente capito il perché. Forse dopo. Non si facevano domande. Come quando all’improvviso si passò dal votare Dc ai socialisti. Era concordato? Credo di sì. Tutto parte dalla Sicilia. L’unica cosa che non è partita da qua è l’autostrada del Sole. A mio padre lo faceva incazzare questa cosa».
Maurizio Bologna a una delle presentazioni del libro "Quel terribile '92" presso la libreria Tante Storie di Palermo
«Una volta c’era la censura e credo che ora sia anche più forte, più raffinata. Ci sono verità che restano nascoste per anni. Me ne rendo conto quando parlo con mia figlia che mi racconta quello che si dice a scuola. Non si sa nulla di come sono andate le cose nella storia. Sullo sbarco degli Americani, sull’annessione del Meridione all’Italia. Tutti sanno che Garibaldi era un eroe e che Camillo Benso era un illuminato ragioniere. Poi magari arriva la verità che emerge da qualche archivio impolverato in cui, carte alla mano, si parla di qualcosa che fino a quel momento era ignoto. Mi chiedo, perché? Cosa c’è ancora da nascondere? Magari lo scopriremo tra altri venticinque anni».
«Oggi la mafia è più invisibile, altolocata, imborghesita, ingentilita. Tutto è più confuso. Ma c’è lo stesso Palazzo delle Aquile. Lo stesso sangue che c’era allora. Anche in politica. Osservi i cartelloni elettorali e vedi ancora le stesse facce. Non cambiano più neanche le fotografie usano direttamente quelle di tre elezioni fa. E quella pubblicità elettorale è pagata da noi. È questa la camurria. Non tutti fanno schifo. Però parecchi si sono infognati perché quella è una fogna da cui è difficile uscire. Palermo è così e lo noti dai comportamenti. Se guardiamo Catania e dintorni scopriamo una città all’avanguardia, hanno l’Ikea, Etnaland, negozi di marche prestigiose, grandi centri commerciali. E non è che la mafia non ci sia. Forse sono solo più imprenditoriali. A Palermo invece prevale l’immobilismo. A Catania sono i londinesi e noi i conservatori. In tutti i campi. Ho pensato di andare via dalla Sicilia. Questa terra mi ha sempre fatto incazzare. Amo Palermo, i suoi profumi, tutto. Non amo l’ignoranza e l’indifferenza. I corsi e i ricorsi storici sono quotidiani ma a noi non interessa. Dimentichiamo tutto. Qualcuno potrebbe dire che stiamo facendo ancora esperienza, ma a cosa hanno portato tutti questi secoli di esperienza? Continuiamo ad ammazzarci, a dire il falso, a credere di essere superiori all’altro. “Il mio pensiero è giusto, il tuo è sbagliato!”. Ascoltiamo ma non capiamo. Poi ci sono i politici che dicono sempre le stesse cose, magari cambiando verbi e congiuntivi. Nonostante tutto quello che è successo si è mosso poco o niente, e sotto sotto sai cos’è che ancora serpeggia. Ci aveva visto lungo Giuseppe Tomasi di Lampedusa con il suo Gattopardo: “Tutto cambia affinché nulla cambi”. Aveva ragione, purtroppo».
Tratto da: Quel terribile'92 (ed Imprimatur) di Aaron Pettinari
Foto di copertina © Giorgio Barbagallo
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