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Lettera al direttore di ANTIMAFIADuemila

Egregio Direttore Giorgio Bongiovanni,

sono Eleonora Morini, una cittadina veneta appassionata di tematiche legate alla Storia italiana, principalmente in riferimento alle ingiustizie che attualmente affliggono l’Italia, quali mafia e corruzione.

Partecipo a più incontri possibili su questi argomenti, soprattutto in riferimento ai fatti gravissimi delle stragi del 1992-93 che hanno insanguinato il nostro Paese e reputo molto grave che, a distanza di trent’anni, le verità non siano ancora emerse.  

A maggio nella mia Regione si sono tenuti, a distanza di cinque giorni, due incontri di antimafia ai quali ho voluto partecipare per assumere informazioni e maturare una visione sempre più solida ed indipendente delle tematiche in questione.

Il primo convegno si è tenuto il 4 maggio presso Teatro Palladio di Fontaniva (Padova) dal titolo "Mafia: i mandanti esterni delle stragi", organizzato dall'associazione culturale Falcone e Borsellino, relatore Lei, Giorgio Bongiovanni, direttore di ANTIMAFIADuemila.

Il secondo si è tenuto il 9 maggio a Farra di Soligo (Treviso), dove è stato presentato il libro “La verità sul dossier mafia-appalti” scritto da Mario Mori e Giuseppe De Donno, ex ufficiali del ROS dei carabinieri imputati e poi assolti in Cassazione “per non aver commesso il fatto” nel processo sulla trattativa Stato-mafia.

Confesso che sono uscita più confusa che mai per le incongruenze tra le versioni proposte dai relatori delle due conferenze rispetto alle verità sulle stragi e alla trattativa “stato-mafia” visto che la Verità è una sola.

Mario Mori, nel proprio intervento, sosteneva che il dossier “mafia-appalti” è la chiave per svelare i misteri italiani del 1992-93 e che Paolo Borsellino credeva che tale fosse la causa della morte di Falcone. E ancora, Mori affermò che fosse molto probabile che, anche la strage di via d'Amelio, fosse da attribuire al dossier. Secondo la versione fornita dal generale, Paolo Borsellino firmò la propria condanna a morte quando iniziò ad indagare sulla Società Calcestruzzi di Palermo, durante la serata ho sentito menzionare molto spesso che ci sono ancora tanti misteri e casualità accadute.

Per contro, al convegno di Fontaniva, si affermava che la strage di via d'Amelio fosse qualcosa di molto più complesso rispetto alla questione “mafia-appalti”. Ricordo che il dossier venne addirittura apostrofato “depistante" perché sviava l'attenzione dai veri motivi che hanno portato all'accelerazione della strage di via d'Amelio e quindi alla morte di Paolo Borsellino. Si parlò dei vertici dei servizi segreti, delle forze dell'ordine in parte deviate, dei ministri, dell’alta finanza in quanto si precisò che è proprio lì che si annidano quei servi infedeli dello stato-mafia che hanno posto in essere depistaggi e trattative e hanno permesso, se non addirittura voluto, le stragi stesse. 

Parole durissime che sottolineano quanto i depistaggi fossero funzionali a gettare fumo negli occhi, per impedire che la verità venisse a galla altrimenti sarebbe crollato tutto un sistema malato e corrotto.

Le incongruenze riguardarono anche la sparizione dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. De Donno affermava che il capitano Giovanni Arcangioli, anche se fotografato con la borsa, non c’entrasse assolutamente con la sparizione dell’agenda. Il capitano, precisa De Donno, è stato indagato per furto, processato e infine assolto. Le ultime indagini, conclude, vedono la borsa nell’ufficio del dott. Arnaldo La Barbera. Si ipotizzarono tre versioni, una delle quali sosteneva che la responsabilità fosse proprio di La Barbera, ora deceduto.

Le tesi contrastanti riguardarono molti altri contenuti, tra cui la mancata perquisizione del covo di Riina, precisando che il covo non è mai esistito e ci ha tenuto a ribadirlo.

Perciò mi chiedo come sia possibile che una stessa tematica possa produrre ricostruzioni così discordanti. Sono convinta che solo comprendendo la verità sia possibile pensare in maniera libera ed indipendente, senza logiche di appartenenza ed operare scelte consapevoli.

Perciò chiedo a Lei Direttore di aiutarmi a capire da che parte sta la verità, fornendo prove e strumenti indispensabili affinché io sia in grado di discernere il vero dal falso, quale prerequisito fondamentale per indirizzare le mie energie elettorali e scelte di vita a sostegno di coloro che realmente agiscono nell’interesse del nostro Paese.

Concludo questo appello con una considerazione personale in riferimento alla pesantissima dichiarazione con la quale Mori ha concluso il proprio intervento a Soligo: “Voglio vendetta e voglio vedere morire tutti i miei nemici!".

Nemmeno i familiari delle vittime di mafia sono arrivati a tanto, nemmeno i genitori dei bambini sciolti nell’acido. Questi familiari sono in grado di manifestare compostamente per chiedere giustizia e verità per i propri cari, mentre un funzionario di Stato, insignito del più alto grado, invia messaggi di morte? Mi ha profondamente toccato constatare che una persona che ricopre un così alto ruolo istituzionale continui a ribadire questa accusa.

Secondo alcuni il generale Mario Mori è una leggenda della lotta al crimine organizzato e al terrorismo, per altri è stato un funzionario da abbattere per via giudiziaria. In ogni caso, al di là degli esiti processuali, ritengo che coloro che rivestono ruoli istituzionali a tali livelli debbano avere responsabilità di ciò che pubblicamente affermano e devono capire che le parole hanno un peso importante.

Ringraziandola per l’attenzione, Le porgo i miei più distinti saluti.

Eleonora Morini
Verona, 11/05/24



Gentile lettrice,
non è la prima volta che il generale Mario Mori, ex capo dei Servizi Segreti ed ex vice Comandante del ROS dei carabinieri, si lascia andare ad affermazioni gravi augurando la morte prematura dei propri nemici. E già queste affermazioni, in un certo senso, qualificano il personaggio che è stato attore protagonista di diversi fatti che hanno riguardato la storia della nostra Repubblica. Personalmente credo che la vita sia una cosa seria. Che non si scherza su di essa e la morte non si augura a nessuno, neanche al peggior nemico.

Per rispondere alle sue domande le posso ricordare i fatti che sono avvenuti e che sono scolpiti nella storia, checché ne possano dire gli ufficiali dell'Arma Mori e De Donno.

Guardando alla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, dopo l'arresto avvenuto il 15 gennaio 1993, Mori e De Donno sostengono che quello non fosse il luogo dove abitava il capo dei capi. Ma il luogo in cui abitava la famiglia.

La loro nuova versione dei fatti è che quel domicilio di via Bernini lo avrebbero filmato per una serie di settimane precedenti.

Peccato che quelle affermazioni contraddicono proprio la versione sempre data dai carabinieri, e cioè che la videosorveglianza del cancello dal quale il 15 gennaio 1993 uscì Riina iniziò all’alba del 14 e finì nel tardo pomeriggio del 15 gennaio.

Ovviamente nelle loro ricostruzioni loro tacciono sulle considerazioni gravi che vengono fatte dai giudici che hanno assolto i carabinieri.

Nel processo sulla mancata perquisizione del covo di via Bernini, Mori ed il “Capitano Ultimo” (alias del Colonnello dei Carabinieri Sergio De Caprio) furono assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia, perché “il fatto non costituisce reato”.

Noi non dimentichiamo, però, che sempre quella sentenza mise in luce le pecche operative compiute nella scelta di non effettuare immediatamente la perquisizione ed individua condotte “certamente idonee all'insorgere di una responsabilità disciplinare”.

E' noto che la magistratura fu convinta a non effettuare la perquisizione con la garanzia che sarebbe stata fatta un'osservazione del covo, ma che le telecamere furono staccate dopo appena poche ore e non informarono le autorità competenti, sottraendosi al controllo di legalità della magistratura.

Così, quando il 2 febbraio venne fatta la perquisizione, gli inquirenti trovarono il rifugio del boss completamente ripulito.

Noi non dimentichiamo anche un'altra sentenza di assoluzione che ha riguardato Mori: quella per il mancato blitz a Mezzojuso, nell'ottobre 1995, dove si nascondeva Bernardo Provenzano.

In quel processo l'ex generale era imputato con il colonnello Obinu ed anche in quella occasione vi furono assoluzioni perché "il fatto non costituisce reato".

Tuttavia nelle motivazioni della sentenza d'appello si legge che "la scelta di privilegiare qualsiasi altra esigenza investigativa rispetto al pericolo che il covo fosse ripulito appare davvero non adeguata per volere usare un eufemismo".

Sempre in quella sentenza, proprio per il mancato arresto di Provenzano, è scritto: “Le scelte tecnico-investigative adottate dagli imputati (soprattutto quelle di non curare adeguatamente gli spunti investigativi emersi dall'incontro di Mezzojuso), a maggior ragione ove si consideri che esse vennero adottate da esperti Ufficiali di Polizia giudiziaria, inducono più di un dubbio sulla correttezza, quantomeno dal punto di vista professionale, dell'operato dei due e lasciano diverse zone d'ombra che il dibattimento, nonostante lo sforzo profuso dalla Pubblica Accusa, non è riuscito a dipanare".

Perché Mori non ricorda mai queste pesanti considerazioni dei giudici? Parliamo di sentenze passate in giudicato.

Di fronte a questi fatti che considerazione possiamo avere dell'operato dei carabinieri? Che siano solo sbadati? E se sono sbadati, come è possibile che poi hanno fatto una brillante carriera fino a giungere agli alti vertici dei Servizi segreti?

Arriviamo alle stragi.

Secondo la loro teoria le indagini su mafia-appalti sarebbero il centro di tutto per scoprire la verità su quanto avvenuto nei primi anni Novanta. Abbiamo più volte scritto come il teorema secondo il quale il dossier (o più precisamente l'annotazione) 'mafia appalti' sia stata la causa scatenante della strage del 19 luglio 1992 si basi sul nulla.

Parliamo di una vicenda particolarmente complessa che nel corso della sua storia ha visto lo sviluppo di vicende processuali contrastanti. Il dossier, nato da una delega conferita nel 1989 dalla Procura di Palermo al ROS, era incentrato sui condizionamenti di Cosa Nostra negli appalti pubblici.

Si dice che l'inchiesta mafia appalti del Ros fu insabbiata e archiviata dalla procura di Palermo all'epoca capitanata da Giammanco e poi passata nelle mani di Caselli. Ma la verità è un'altra. E' vero che ci fu un'iniziale archiviazione di una parte che non era supportata da prove e poi ci fu una ripresa delle indagini seguite da arresti e condanne.

A nostro avviso si dovrebbe andare oltre mafia-appalti per capire il vero motivo che si nasconde dietro le stragi e svelare il volto di mandanti esterni.

Elementi emersi da processi ed indagini. Come emerge nel Borsellino ter (sentenza definitiva): “Risulta quanto meno provato che la morte di Paolo Borsellino non era stata voluta solo per finalità di vendetta e di cautela preventiva, bensì anche per esercitare” una “forte pressione sulla compagine governativa che aveva attuato una linea politica di contrasto alla mafia più intensa che in passato ed indurre coloro che si fossero mostrati disponibili tra i possibili referenti a farsi avanti per trattare un mutamento di quella linea politica”. Ed è sempre Cancemi ad aver raccontato che Riina era stato “accompagnato per la manina” nell’organizzazione di quelle stragi. Ancora oggi sono in corso indagini sui mandanti esterni delle stragi ed approfondimenti su questi temi li può trovare nel nostro sito in svariati articoli.

Mi permetta, infine, di ricordarle anche un altro fatto. Al di là della sentenza di assoluzione sulla trattativa Stato-mafia è innegabile che Mori e De Donno furono protagonisti di quel dialogo che fu avviato con Cosa nostra, nella figura dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, in piena stagione stragista.

Per capire la verità la invito ad ascoltare ciò che Mori e De Donno dissero sotto giuramento, all’udienza pubblica in Corte d’Assise a Firenze, quando proprio loro parlarono di trattativa.

I giudici della Corte d'assise di Firenze, nelle motivazioni della sentenza del processo sulle stragi del 1993, scrivono: “L’esame congiunto di ciò che hanno detto testi e collaboratori dimostra in maniera indiscutibile che nella seconda metà del 1992 vi fu un contatto tra il Ros dei Carabinieri e i capi di Cosa Nostra attraverso Vito Ciancimino (…) iniziativa del Ros - perché di questo organismo si parla posto che vide coinvolto un capitano, il vicecomandante, lo stesso comandante del reparto - aveva tutte le caratteristiche per apparire come una trattativa. L’effetto che ebbe sui mafiosi fu quello di convincerli definitivamente che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Questa iniziativa al di là delle intenzioni con cui fu avviata (…) ebbe sicuramente un effetto deleterio per le istituzioni confermando il delirio di onnipotenza dei capi mafiosi e mettendo a nudo l’impotenza dello Stato”.

E' un dato di fatto che Mori e De Donno non si misurano mai con le parole di questa sentenza. E la verità è scritta lì. Sull'altare di quel dialogo avviato tra le stragi di Capaci e via d'Amelio morirono 15 persone, tra cui due bambine, una di 50 giorni e l'altra di nove anni, Caterina e Nadia Nencioni. Vi furono decine di feriti a cui vanno aggiunti i danni al patrimonio artistico e alla sicurezza nazionale. Mentre i politici iscritti alla lista di morte di Cosa nostra, invece, ebbero salva la vita. Altro che dialogo avviato “per fermare le stragi” (come dissero gli stessi carabinieri).

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