Così le motivazioni della sentenza d'Appello che ha assolto gli ufficiali del Ros spiegano gli attentati in Continente
Quando nel gennaio 1993 Cosa nostra deve fare i conti con l'arresto del capo dei capi Totò Riina e del suo braccio destro, nonché autista, Salvatore Biondino, all'interno di Cosa Nostra vi fu un momento difficile. Tuttavia il disegno stragista non si interruppe. Anzi, dopo una serie di discussioni interne, i vertici dell'organizzazione criminale scelsero in maniera chiara di proseguire con la linea stragista, spostando l'orizzonte dalla Sicilia verso il cosiddetto continente.
Lo si legge a pagina 1844 delle motivazioni della sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Palermo ha assolto gli uomini delle istituzioni (e condannato i boss, ndr) nel processo sulla trattativa Stato-mafia.
Scrivono i giudici: “È provato che la risoluzione concertata tra i capi di Cosa Nostra nelle riunioni seguite alla cattura di Riina fu nel senso di rimettere mano ai delitti eclatanti (…) l’obiettivo era proprio – e più che mai – quello di costringere lo Stato a trattare: anzi, di costringerlo a tornare a trattare”.
“Tale decisione – prosegue la Corte - infatti adottata, non senza dissensi, contrasti, tensioni tra stessi capi che concertarono (cui può aggiungersi dissenso, relativamente alla scelta di colpire il continente lontano dalla Sicilia, dello stesso Riina, come si apprenderà solo molti anni dopo attraverso conversazioni captate carcere), anche in ragione del fatto che già due imprese Capaci e via D’Amelio erano valse indurre uomini dello Stato a farsi sotto per negoziare un accordo, anche la trattativa s’era arenata. E fu questo l’argomento vincente che permise, unitamente rapporti forza esistenti all’epoca tra diverse fazioni che frastagliavano l’apparente monolitismo dello schieramento corleonese, all’opzione stragista di prevalere. Non a caso i capi mafia che concertarono quella decisione erano tutti al corrente della pregressa trattativa poi arenatasi”.
L'elenco individuato dei soggetti investiti del progetto stragista vedeva uomini di primissimo piano.
Oltre a Biondino e Brusca, secondo i giudici ne erano al corrente Matteo Messina Denaro (tutt'oggi latitante, ndr), Leoluca Bagarella (imputato e condannato nel processo), Bernardo Provenzano, ma anche Giuseppe Graviano.
Il boss di Brancaccio, tra i protagonisti secondo il racconto di Spatuzza, dei contatti anche con l'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri, proprio sulle stragi del 1993 ha avuto un ruolo importante.
L'ex senatore, Marcello Dell'Utri, e l'ex Premier, Silvio Berlusconi © Imagoeconomica
Sicuramente di rilievo è il contributo del collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza che non solo ha parlato dell'incontro a Roma, nel bar Doney, in cui il capomafia gli riferì i nomi di Berlusconi e Dell'Utri come i soggetti in cui si sarebbero messi “il paese nelle mani” ma ha anche spiegato che “Madre Natura” (così era chiamato Graviano) indicò in maniera chiara di colpire i carabinieri nell'attentato dello stadio Olimpico di Roma, previsto nella domenica del 23 maggio 1994. “Un attentato, quello dello stadio Olimpico contro i carabinieri - scrivono ancora i giudici - che avrebbe fatto impallidire il ricordo di Capaci e di via D’Amelio per numero di vittime”.
“Non si può non convenire con la valutazione espressa dalla corte di primo grado - proseguono i giudici d’appello - secondo cui Spatuzza ha confermato in termini inequivocabili che obiettivo dell’attentato erano proprio e specificatamente i carabinieri e che lo scopo ultimo era di costringere chi di dovere a riprendere la trattativa interrottasi per fare ottenere benefici soprattutto ai mafiosi detenuti in carcere e non quella di vendicarsi per essere stati i carabinieri gli autori della cattura di Riina”.
Parole di un certo peso che si aggiungono ad altre valutazioni contenute nelle motivazioni della sentenza.
Il giudici della Corte d'appello non arrivano ad affermare come quelli di primo grado che, “senza l'improvvida iniziativa dei Carabinieri e cioè senza l'apertura al dialogo sollecitata ai vertici mafiosi che ha dato luogo alla minaccia al Governo sotto forma di condizioni per cessare la contrapposizione frontale con lo Stato, la spinta stragista meramente e chiaramente di carattere vendicativo riconducibile alla volontà prevaricatrice di Riina, si sarebbe inevitabilmente esaurita con l'arresto di quest'ultimo nel gennaio 1993”.
Tuttavia si riconosce nei fatti che vi fu un “rischio mal calcolato”.
Sul piano fattuale secondo la Corte resta confermato che “la decisione di riprendere l’attività stragista ebbe come suo postulato la pregressa trattativa che si era svolta nell’estate nel 1992”.
Ergo, quella “improvvida iniziativa” fece scaturire altre stragi.
Una considerazione che, come viene ricordato in sentenza, avevano fatto anche i giudici di Firenze nei processi sulle stragi: “Dopo la prima fase della cosiddetta trattativa su iniziativa esplorativa di provenienza istituzionale (capitano De Donno e successivamente Mori e Ciancimino), arenatasi dopo l’attentato di via d’Amelio, la strategia stragista proseguì alimentata dalla convinzione che lo Stato avrebbe compreso la natura e l’obiettivo del ricatto proprio perché vi era stata quella interruzione”.
Checché ne dicano alcuni avvocati, professori ed i soliti giornaloni, che non smettono mai di definire “meritoria” l'opera degli ufficiali dell'Arma anche quando la Corte d'Assise d'Appello, in più parti della sentenza, pur riconoscendo una finalità diversa da quella dei boss (ovvero con un'operazione di intelligence cercare “disinnescare la minaccia stragista incuneandosi con proposte e iniziative fortemente divisive all'interno di spaccature già esistenti in Cosa Nostra e persino all’interno dello schieramento egemone ), non solo definiscono l'iniziativa come improvvida, ma mettono in risalto dei veri e propri errori di valutazione che sono stati compiuti.
L'ex capo del Ros dei carabinieri, Mario Mori © Imagoeconomica
Errore di calcolo
Vi è un capitolo, infatti, dedicato al “rischio mal calcolato” da parte del Ros.
Scrivono i giudici che “il disegno e il tentativo iniziali di ricucire con l’organizzazione mafiosa il filo di un dialogo nell'intento di stemperare la tensione e far tacere le armi, consentendo al contempo allo Stato di guadagnare tempo per serrare le fila ed attrezzarsi per una più efficace risposta repressiva al terrorismo mafioso (ma poteva in effetti essere anche un percorso utile a dare fiato alla componente più moderata, che avrebbe potuto fornire gli uomini e le risorse più idonee per portare avanti un negoziato con lo Stato) comportava un grave rischio: quello di galvanizzare - come in effetti poi è accaduto - le fila dell’ala stragista, rafforzandone il convincimento che la strategia di attacco frontale allo Stato fosse la strada più sicura per strappare concessioni o costringere le istituzioni ad addivenire a più miti consigli nei riguardi di Cosa Nostra, nel senso di abbassare l’intensità dell’azione repressiva e ammorbidire sul versante carcerario il trattamento dei detenuti mafiosi”.
E poi ancora si legge che “la richiesta avanzata da autorevoli rappresentanti dello Stato, e per conto di più alte autorità istituzionali, ben potevano essere interpretate come una manifestazione di debolezza dello Stato e un segno tangibile di cedimento al clima di violenza e di intimidazione mafiosa, con il rischio conseguente di un ulteriore innalzamento della tensione e del livello dello scontro già in atto, propiziando nuove stragi o delitti eclatanti, o comunque alimentando la spirale della violenza mafiosa, invece di stemperarla”.
Nonostante queste dure valutazioni, la Corte osserva che ciò “non significa - né comporta - che gli ufficiali del Ros avessero 'accettato' quel rischio" in quanto "resta il fatto che il suo avveramento non solo non era voluto, ma era l’esatto contrario di ciò che essi intendevano favorire, e degli obbiettivi che si prefiggevano”.
Tuttavia aggiungono che quella scelta fu un “calcolo sbagliato e di un’imperdonabile negligenza e superficialità, ma anche supponenza, nel valutare le conseguenze di un’iniziativa che richiedeva un’assunzione di responsabilità politica che esulava completamente dall’ambito delle loro competenze”.
Sempre secondo i giudici, con il senno di poi, guardando appunto alle stragi successive del 1993, può essere facile arrivare alla conclusione che quello "fu un calcolo sciagurato”.
Tuttavia resta comunque un'evidenza indiscutibile "che si trattò altresì di un’iniziativa quanto mai improvvida, oltre che intrapresa in totale spregio da parte dei due ufficiali, con l’avallo del loro comandante, ai doveri inerenti al loro Ufficio e ai loro compiti istituzionali”.
Un "errore di calcolo" (nella migliore delle ipotesi) che, è scritto nella storia, portò ad altre stragi ed altri morti.
A Firenze, in via dei Georgofili, sono state spazzate via le vite dell'intera famiglia Nencioni, con le due bambine di 8 anni e 50 giorni, e quella del giovane studente Dario Capolicchio. A Milano, in via Palestro, uccidendo i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, il vigile urbano Alessandro Ferrari e Driss Moussafir, migrante raggiunto da un pezzo di lamiera mentre dormiva su una panchina dei giardini pubblici. Morti a cui vanno aggiunte decine e decine di feriti.
Evidentemente vittime accidentali per Mori, Subranni, De Donno e tutti quei soggetti che possono aver avallato, avallano ed avalleranno, giustificandola, la trattativa.
Morti sacrificati sull'altare di una Patria incapace di processare sé stessa per tutti quei familiari che ancora oggi cercano e pretendono giustizia.
In foto di copertina: la strage dei Georgofili a Firenze tra la notte del 26 e 27 maggio 1993
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